Roma, Teatro Argentina: “Ritorno a casa”

Roma, Teatro Argentina
RITORNO A CASA
di Harold Pinter
regia Massimo Popolizio
con Massimo Popolizio

e con Christian La Rosa, Gaja Masciale, Paolo Musio, Alberto Onofrietti, Eros Pascale
scene Maurizio Balò
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
suono Alessandro Saviozzi
foto Claudia Pajewski
produzione Compagnia Umberto Orsini, Teatro di Roma – Teatro Nazionale,
Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
07 maggio 2025
«Sotto ogni superficie di normalità, nella famiglia, nella casa, nelle parole, serpeggia il morso nascosto dell’istinto.»
Harold Pinter
Nel 1964, mentre l’Europa si illudeva di assistere a una nuova fioritura di civiltà e libertà, Harold Pinter, con The Homecoming, ne scopriva il rovescio oscuro. Con una scrittura che incide come una lama nella carne della quotidianità, Pinter raccontava il collasso silenzioso dei legami familiari, mettendo in scena non più la comunicazione tra uomini, ma il loro fallimento a comprendersi, a vivere, persino a esistere gli uni accanto agli altri.
Le parole, nei suoi testi, non servono più a trasmettere messaggi: sono maschere, schermi, armi di sopraffazione, capaci di insinuare anziché chiarire. Massimo Popolizio raccoglie oggi quella sfida letteraria e teatrale con uno spettacolo di rara intelligenza registica e forza espressiva. Il suo Il ritorno a casa, in scena al Teatro Argentina, è un percorso spietato dentro la casa pinteriana, dove la ferocia e l’humour si intrecciano fino a diventare indistinguibili, in un gioco pericolosamente divertente che lascia lo spettatore senza appigli, senza vie di fuga. Il merito principale della regia di Popolizio è quello di assecondare e al tempo stesso potenziare la natura quasi cinematografica del testo: i dialoghi brevi, taglienti, si succedono come rapide inquadrature; le pause diventano montaggi interni, scandendo un ritmo interno che incalza senza mai esplodere. La scena, firmata da Maurizio Balò, è uno spazio chiuso, asfittico: un interno borghese consunto e squallido, dominato da pochi arredi stanchi, senza memoria né promessa di riscatto. Questo non-luogo, perfettamente neutro e claustrofobico, accoglie i personaggi come presenze residuali, vittime e carnefici di una stessa condizione esistenziale. In perfetta coerenza con questo disegno visivo, i costumi di Gianluca Sbicca vestono i corpi con abiti curati e sgargianti, parlando prima dei personaggi stessi del loro naufragio umano. Le luci di Luigi Biondi, cesellate con una sapienza quasi scultorea, disegnano traiettorie di isolamento, riquadri di solitudine, improvvise fenditure di crudezza che sembrano aprire abissi sotto i piedi degli attori. Il suono, curato da Alessandro Saviozzi, accompagna senza invadere: silenzi e vibrazioni appena percepibili sottolineano lo svuotamento emotivo e il vuoto pneumatico che regna sulla scena. La regia di Popolizio non rincorre l’effetto facile: non carica il grottesco né sottolinea il tragico. Al contrario, lascia che la crudezza emerga naturalmente dalle parole e dai gesti, orchestrando il tutto con un rigore che si fa cifra stilistica. Il ritmo dello spettacolo è sapientemente controllato: Popolizio dosa sapientemente immobilità e improvvisi scatti nervosi, modulando la tensione in un gioco di compressioni e rilasci che mantiene il pubblico in uno stato di allerta inquieta. Il cast, composto da Christian La Rosa, Gaja Masciale, Paolo Musio, Alberto Onofrietti, Eros Pascale e lo stesso Popolizio, offre una prova corale di altissimo livello. La direzione attoriale è coerente e compatta: non vi sono picchi narcisistici o virtuosismi isolati, ma una coralità dolente e serrata, perfettamente aderente all’universo pinteriano. Gli attori plasmano i loro personaggi attraverso una recitazione asciutta, antipsicologica, affidandosi a mezzi toni, silenzi, posture che rivelano più dei dialoghi stessi. Il linguaggio scenico diventa così una trama di tensioni sotterranee, dove il non detto pesa più del detto, e ogni gesto minimo — un sorriso trattenuto, uno sguardo abbassato — si carica di un’ambiguità spaventosa. La capacità di Popolizio di far emergere la vena cinica e crudele dell’opera raggiunge qui il suo massimo compimento. Il riso che Il ritorno a casa suscita è un riso amaro, destabilizzante, un riso che costringe lo spettatore a interrogarsi su ciò che trova comico e su ciò che cela dietro quella comicità. Attraverso questa operazione, Popolizio restituisce in pieno la natura “pericolosamente” divertente della pièce: diverte scardinando, diverte demolendo certezze, diverte mettendo a nudo le ipocrisie su cui si reggono la famiglia, la società, la convivenza stessa. L’arrivo di Ruth nella casa, figura ambigua e catalizzatrice, non introduce una frattura violenta: agisce piuttosto come un acido silenzioso che scioglie definitivamente i già fragili equilibri familiari. Popolizio riesce a raccontare questa lenta corrosione senza mai ricorrere a forzature: tutto avviene sotto gli occhi dello spettatore con una naturalezza atroce, come se l’orrore fosse il destino inevitabile di quella convivenza, e non un incidente. In questo Il ritorno a casa, la famiglia si rivela come il primo e il più crudele teatro del potere. Le relazioni non sono fondate sull’affetto, ma sulla forza; la parola non è veicolo di amore, ma strumento di dominio; l’identità stessa dei personaggi si dissolve in una lotta continua per l’affermazione e la sopravvivenza. Alla fine, lo spettacolo di Popolizio non concede alcuna via di fuga né illusione di catarsi. Il pubblico esce da questo ritorno a casa con il peso di una verità scomoda: che dietro ogni normalità si cela una violenza muta, e che il vero orrore non è l’eccezione, ma il quotidiano. Con rigore intellettuale, lucidità registica e una straordinaria compattezza interpretativa, Massimo Popolizio firma uno spettacolo che non solo rende piena giustizia a Harold Pinter, ma riafferma, con forza rara, la funzione inquietante e necessaria del teatro.