Roma, Teatro Argentina
SARABANDA
di Ingmar Bergman
traduzione Renato Zatti
regia Roberto Andò
con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
foto Lia Pasqualino
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited, (agente del copyright), Londra
per conto della Ingmar Bergman Foundation
Roma, 27 maggio 2025
C’è un tempo in cui il teatro, più che raccontare, svela. Non narra storie, ma rivela strutture dell’anima, tracce di una geografia affettiva che si insinua nei corpi, nel ritmo delle battute, nella pause che valgono più di un discorso. Così accade con Sarabanda, ultimo e abissale lascito di Ingmar Bergman, che Roberto Andò trasporta con misura e intelligenza sulla scena italiana, in una regia che rifugge ogni facile suggestione, ogni estetismo di maniera, per restituire invece la potenza del pensiero che si fa azione. Non siamo davanti a una mera trasposizione filmica. Andò non ricuce il cinema al teatro con ago d’oro e filo di nostalgia. Fa qualcosa di più sottile e più necessario: filtra, depura, restituisce all’arte scenica il compito di essere specchio imperfetto dell’imperfezione umana. Nello spazio rarefatto, costruito da Gianni Carluccio come un organismo respirante di pareti mobili e tagli di luce millimetrici, si consuma una liturgia familiare che è anche disfacimento, scontro tra la memoria e l’oblio, tra ciò che resta e ciò che già è passato. Il testo – nella traduzione asciutta e incisiva di Renato Zatti – è una suite di duetti, dieci quadri che non inseguono la cronologia ma la vertigine del sentire. A turno i personaggi si cercano, si sfiorano, si feriscono, si tradiscono con una brutalità che ha poco a che vedere con il dramma nel senso tradizionale del termine. Qui non c’è la scena madre, non c’è il colpo di teatro: c’è l’umanità nella sua essenza, disadorna e lacerata. Renato Carpentieri compone un Johan di rara complessità, dove la decrepitezza fisica non addolcisce la lucidità spietata di un uomo che ha amato troppo poco e riflettuto troppo.
Il suo corpo, rigido e insieme frantumato, è l’emanazione di un pensiero che fatica a farsi carne. La sua voce è rotta, mai tremante: ha l’autorità amara di chi ha rinunciato a chiedere scusa. Alvia Reale, nel ruolo di Marianne, è forse la vera colonna segreta dello spettacolo. Non alza mai la voce, non reclama mai il centro, ma lo abita con fermezza. La sua è una presenza che non chiede conferme, ma lascia dietro di sé una traccia di consapevolezza e silenziosa pietà. Marianne è la figura che Bergman pone al confine tra il disastro e la possibilità di redenzione. Reale ne fa una testimone, non una vittima. Henrik, affidato a Elia Schilton, è una ferita aperta. Il suo dolore non cerca empatia: è rifiuto, è recriminazione, è bisogno d’amore che sconfina nella crudeltà. Schilton lo interpreta con pudore e forza, evitando il rischio del patetico. C’è una bellezza tragica nei suoi cedimenti, una nobiltà residua nel suo fallimento. La sua rovina non è solo individuale: è l’eco di un’intera genealogia di uomini incapaci di amare senza possedere. Caterina Tieghi è una Karin trattenuta e indocile.
Il suo personaggio si muove come in fuga, sempre sull’orlo dell’abbandono e della colpa. Il violoncello che suona è un’estensione del corpo, ma anche una gabbia. Tieghi riesce nell’impresa di restituire la tensione costante di una ragazza che non sa ancora se la propria voce le appartenga davvero o se sia solo l’eco di ciò che il padre ha voluto plasmarla a essere. La regia di Andò lavora sulle trasparenze, sulle linee rette che si spezzano, sulle simmetrie che non coincidono. Nulla è enfatico, nulla è lasciato al caso. Le dissolvenze scenografiche, le cesure temporali, le dilatazioni musicali (grazie al lavoro di Pasquale Scialò) scandiscono la partitura emotiva come una suite bachiana interiore. C’è una musicalità dolorosa nella successione delle scene: tutto sembra lento, ma tutto precipita. E poi c’è il buio. Il buio che non è assenza, ma grammatica primaria della visione. Ogni comparsa sul palco è una emersione, ogni personaggio pare nascere dal nulla, come idea incarnata.
Le luci non illuminano, sezionano. Non mostrano, interrogano. Anche le quinte mobili sembrano fessure della mente, pareti della memoria che si aprono e si richiudono senza preavviso, come in un sogno lucido. Certo, alcune scelte registiche possono risultare meno convincenti. L’esplicitazione del sottotesto incestuoso tra Henrik e Karin, sebbene condotta con discrezione, sottrae al testo quella ambiguità tragica che Bergman custodiva gelosamente. Là dove il sospetto è arma più affilata della dichiarazione, la scena sembra cedere al bisogno di mostrare, piuttosto che di evocare. Ma è una caduta marginale, che non compromette l’ossatura etica e poetica di uno spettacolo necessario. Il finale – quell’urlo condiviso, corale, che raggruma in sé il dolore muto di una vita intera – è il vero lascito di questa Sarabanda: un grido che non cerca redenzione, ma almeno ascolto. E se manca l’epilogo originario di Bergman, con la voce narrante di Marianne che infine tocca la figlia e ne riconosce il mistero, resta tuttavia una forma implicita di riconciliazione nella scelta di Karin di partire, di suonare, di vivere. Forse è proprio questo il senso di Sarabanda: lasciare che la musica, più che le parole, sia l’ultima a parlare. Photocredit Lia Pasqualino
Roma, Teatro Argentina: “Sarabanda”
