Roma, Teatro dell’Opera, stagione 2024/2025
“DAWSON / LEÓN-LIGHTFOOT / EKMAN”
Direttore Thomas Herzog
“CACTI”
Musica Joseph Haydn, Ludwig van Beethoven, Franz Schubert (arrangiata e orchestrata da Andy Stein)
eseguita da Quartetto Sincronie
Coreografia Alexander Ekman
ripresa da Ève-Marie Dalcourt
Scene e costumi Alexander Ekman
Luci Tom Visser
Testi Spenser Theberge
“SUBJECT TO CHANGE”
Musica Franz Schubert (Der Tod und das Mädchen, Quartetto per archi n. 14 in Re minore D 810 del 1824, secondo movimento Andante con moto, arrangiamento di Gustav Mahler del 1894)
Coreografia Sol León e Paul Lightfoot
Coreografi assistenti Roger Van der Poel, Chloé Albaret
Scene Sol León e Paul Lightfoot con la supervisione di Eric Blom
Costumi Sol León e Paul Lightfoot con la supervisione di Susanne Stehle
Luci Tom Bevoort
“FOUR LAST SONGS”
Musica Richard Strauss
Coreografia David Dawson
Ripetitori Christiane Marchant, Rebecca Gladstone
Scene Eno Henze
Costumi Yumiko Takeshima
Luci Bert Dalhuysen
Soprano Madeleine Pierard
Artista ospite Alice Mariani
Interpreti Principali Rebecca Bianchi, Susanna Salvi, Federica Maine, Marianna Suriano, Alessio Rezza, Michele Satriano, Jacopo Giarda
Roma, Teatro Costanzi, 23 maggio 2025
Avevamo già assistito a Cacti, l’irriverente creazione di Alexander Ekman, nel 2017, sul palcoscenico del Teatro dell’Opera di Roma. Ora, nel contesto del progetto di apertura alla danza contemporanea voluto e promosso da Eleonora Abbagnato, il lavoro ritorna in scena come tassello significativo di un percorso che intende interrogare – non senza ironia e provocazione – le forme, i codici e le aspettative che circondano l’arte coreutica. Realizzato originariamente per il Nederlands Dans Theater 2 nel 2010, Cacti si propone come una raffinata operazione di smontaggio: la danza viene esaminata, sezionata, messa sotto vetro. E il primo elemento a finire sotto processo è proprio il suo impianto narrativo, il desiderio – forse ingenuo – di raccontare una storia attraverso il corpo. Una voce fuori campo suggerisce allo spettatore questioni apparentemente insolubili sulla modalità di esistenza di una forma artistica derivante dal rito in una civiltà contemporanea orientata quasi totalmente sulla dimensione tecnologica. Una danzatrice attraversa orizzontalmente il palcoscenico in una posa di profilo che sembra rievocare l’antico Egitto, mentre in un’atmosfera sfoglia risuona scenicamente l’astrattismo di quadrati bianchi che si compongono in una mutevole scacchiera. Dopo lo spazio e il tempo ad essere indagato è il fondamentale rapporto con la musica, che da accompagnamento – in scena il Quartetto Sincronie su cimenta in musiche di Haydn, Beethoven e Schubert – si trasforma in puro ritmo tribale, imposto dai danzatori con il battito delle mani sul pavimento di quadrati bianchi. E dunque, si passa al movimento, al linguaggio del corpo, che si indirizza verso una emblematica semplicità. I danzatori non sono né più né meno che degli sportivi, e in alcuni loro atteggiamenti nonché nelle loro aderenti tutine il richiamo diventa del tutto esplicito.
Certo, anche in una prospettiva storica c’è stato chi come Meyerchold agli inizi del Novecento ha insistito sull’aspetto biomeccanico dell’interpretazione attoriale. E le luci che scendono dall’alto, lo spazio scenico che alle volte si restringe, sembrano condurci sempre più in una dimensione laboratoriale. Qui però prevale un’ironia postmoderna che toglie enfasi a qualsiasi incanto per la modernità. Ecco che mentre i danzatori sembrano volerci ipnotizzare con i loro movimenti, si sente il loro ansimare, il gioco verbalizzato di un’infatuazione per una qualche spettatrice, di un duo si avverte tutto il progressivo comporsi nella fatica e nel reciproco affidarsi dei danzatori, mentre un gatto cade improvvisamente dal soffitto. E per ultimi fanno la loro comparsa i cactus, che talvolta assumono delle connotazioni erotiche, talaltra si associano alle asperità della vita. Difficile è la stessa composizione artistica, che assume una precisa identità solo dopo la messa in scena e il rapporto col pubblico, presentandosi invece nel suo aspetto misterioso al coreografo e agli interpreti che non sanno mai quale sia la giusta fine di un pezzo. Meno intellettualoide e decisamente più emozionante il pezzo Subject to Change di Sol León e Paul Lightfoot, che attraverso l’impiego di una coppia principale formata da Rebecca Bianchi e Jacopo Giarda, quattro danzatori in nero e un tappetto rosso ci vogliono ricordare l’oscura imprevedibilità della vita e i suoi dispiaceri, che ci possono avvolgere e travolgere da un momento all’altro.
L’indagine principale avviene qui a livello coreografico. I movimenti sono estremi, tesi come lame, ricchi di sospensioni e fuori asse e nella loro angolosa espressività risuonano dell’energia conferita loro dalla musica del quartetto per archi n. 14 in Re minore Der Tod und das Mädchen di Schubert nell’arrangiamento di Gustav Mahler. Chiude la serata il pezzo Four Last Songs, composto dal coreografo inglese David Dawson su un ciclo di lieder di Richard Strauss, il cui canto sulle stagioni della vita è interpretato in scena dal soprano Madeleine Pierard. Dei passi a due scultorei che vedono unirsi al corpo di ballo del teatro capitolino la prima ballerina del Teatro alla Scala Alice Mariani vogliono portarci in un modo di purezza angelica di ispirazione diremmo neoclassica lifariana. Ma forse il riferimento più adatto è il non finito michelangiolesco, qui trasmessoci dalla tensione verso un’ideale che pare assolutamente irraggiungibile, ma che può essere vagheggiato in scena grazie alle belle forme derivate dalla tradizione. Foto Fabrizio Sansoni – Opera di Roma
Roma, Teatro dell’Opera: “Dawson/ León-Lightfoot/ Ekman”
