Roma, Teatro Vascello: “Felicissima Jurnata”

Roma, Teatro Vascello
FELICISSIMA JURNATA
drammaturgia e regia Emanuele D’Errico

con Antonella Morea e Dario Rea
e con le voci delle donne e degli uomini del Rione Sanità
scene Rosita Vallefuoco
musiche originali Tommy Grieco
suono Hubert Westkemper
luci Desideria Angeloni
costumi Rosario Martone
aiuto regia Clara Bocchino
realizzazione scene Mauro Rea
macchinista Michele Lubrano Lavadera
fonico Stefano Cammarota
foto di scena Laila Pozzo
ufficio stampa Linee Relations (Valeria Bonacci, Giorgia Simonetta)
produzione Cranpi, Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Putéca Celidònia

in collaborazione con La Corte Ospitale – Forever Young 2022
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo
e di C.RE.A.RE Campania Centro di residenze della Regione Campania
Roma, 13 maggio 2025
Nel ventre pulsante di Napoli, dove i vicoli stringono le vite e il cielo è solo un’ipotesi fra i panni stesi, nasce un teatro che non chiede permesso. Non elemosina autorizzazioni né concessioni. Putéca Celidònia ha imparato a sporcarsi le mani, a respirare l’umido dei bassi, a sedersi accanto ai vecchi sulle sedie di plastica, ad ascoltare storie più vere del vero. È un teatro che germoglia dalla terra, non da un bando ministeriale. Felicissima Jurnata, andato in scena al Teatro Vascello di Roma, non è uno spettacolo: è una veglia laica, una processione di fantasmi vivi. È un modo per dire che Beckett non appartiene agli scaffali dei licei, ma alle strade, ai corpi, alle donne e agli uomini sepolti sotto la polvere del tempo e del silenzio. I ragazzi e le ragazze della Putéca prendono Beckett, lo sfogliano, lo masticano, lo portano nei bassi della Sanità e gli chiedono: “Ti riconosci in tutto questo?”. La risposta è sì. Perché Giorni Felici accade ogni giorno, in ogni casa dove il tempo si è fermato e la luce non entra. Dove la felicità è una parola che si pronuncia a voce alta, solo per coprire l’eco del vuoto. Antonella Morea, attrice dalla voce antica e coraggiosa, è Lina. In cima a un cono altissimo, non sepolta nella sabbia, ma in un vulcano. Dentro il Vesuvio, vestita di fili azzurri come il mare che non si vede mai. Si trucca, si pettina, ripete le stesse frasi come Winnie. Ma qui non c’è nonsense: c’è resistenza. E se si ride, è perché si è attraversato il dolore. La sua voce, roca e dolce, è un canto spezzato che ad ogni battuta si rialza. Sotto di lei, nel cono, c’è Lello, il marito. Dario Rea è un corpo murato nel silenzio, che comunica solo con gesti e suoni franti. È l’uomo rimasto. Quello che non scappa, che si siede e attende. La sua assenza racconta più di mille parole. Lina e Lello sono una coppia incastrata in un tempo che non si muove, legati da fili invisibili, come quelli che lei cuce e lui aggiusta. Fili che si impigliano nel non detto, nei gesti ripetuti, nella fatica di restare. Non c’è scenografia: c’è una condizione. Le scene di Rosita Vallefuoco sono una dichiarazione poetica. Lo spazio è simbolo vivo: una casa-vulcano, una bocca che fuma, un cratere che inghiotte e partorisce memoria. Il suono, curato da Hubert Westkemper, non accompagna: rincorre. Registra e restituisce. È la voce delle persone incontrate nei bassi: reali, registrate, ma trasfigurate. Non sono testimonianze, sono apparizioni. Perché questo lavoro nasce da anni di immersione nei quartieri. Non è finzione. È il frutto di uno sguardo che ha saputo ascoltare, di un teatro che si è lasciato attraversare. Le voci di Assunta, Pasqualotto, Angela, e di una donna di centonove anni che si trucca ogni mattina e ancora canta, ancora parla alla gente, ancora afferma “io ci sono”, sono l’anima del racconto. È questa la felicità? Forse sì. Felicissima Jurnata è un titolo ironico, struggente, ma anche autentico. Perché nel ripetere quella frase – sempre con lo stesso sorriso, con la stessa incrinatura nella voce – si compie un rito. Una piccola preghiera laica contro la dimenticanza. Ogni giorno è uguale, ogni gesto ritorna, ma ogni parola pronunciata resiste al nulla. È un Beckett che diventa partenopeo, sì, ma soprattutto umano. La regia di Emanuele D’Errico è sottile, rispettosa, chirurgica. Tiene insieme materiali vivi con grazia e precisione. Non impone, ma lascia emergere. I volti, i suoni, i corpi raccontano da sé. E la lingua napoletana – vibrante, aspra, musicale – diventa strumento di poesia civile. Ogni parola è un sasso levigato dal tempo. Non ci sono scene madri, né picchi emotivi: c’è un fluire continuo. Una nebbia calda che avvolge. Un tempo dilatato, necessario. E quando, alla fine, Lina pronuncia ancora una volta “felicissima jurnata”, lo spettatore non è più lo stesso. Ha assistito a qualcosa che non si dimentica. Ha sentito il respiro di un quartiere, il battito ostinato di un’umanità viva. Un’umanità che non chiede pietà, ma ascolto. Questo è un teatro che cura. Non perché consola, ma perché interpella. Chiama alla presenza, alla responsabilità, alla memoria. Putéca Celidònia non inventa storie: accoglie vite. Le trasforma in arte. In un’arte che non divide ma unisce, che non edifica ma ricuce. Felicissima Jurnata è il teatro che ci manca: quello che accade dentro e fuori la scena. Che non ha paura del dolore, ma lo abita. E ci ricorda che il palcoscenico, quando è sincero, è il luogo più vero che abbiamo. Photocredit: Laila Pozzo