Roma, Teatro Vascello
LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA
di Tennessee Williams
traduzione Monica Capuani
regia Leonardo Lidi
con Valentina Picello, Fausto Cabra, Orietta Notari, Nicola Pannelli, Giuliana Vigogna, Giordano Agrusta, Riccardo Micheletti, Greta Petronillo, Nicolò Tomassini
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Claudio Tortorici
assistente regia Alba Maria Porto
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale
La gatta sul tetto che scotta viene presentato per gentile concessione de la University of the South, Sewanee, Tennesee.
Roma, 20 maggio 2025
Una gatta, un tetto, il calore insopportabile della verità. Ogni elemento del titolo di Tennessee Williams – La gatta sul tetto che scotta – è già tutto. È già teatro. È già sconfitta e desiderio, ossessione e sogno. Leonardo Lidi non lo addolcisce, non lo neutralizza, non lo rende “presentabile”. Lo prende di petto. Lo lascia contorcersi. Gli toglie le imbottiture. E lo fa bruciare. Dopo Lo zoo di vetro, il regista piacentino torna su Williams, attraversando quel corpus lacerato e luminoso in cui la famiglia – americana o universale – si dimostra per quello che è: fabbrica di ipocrisie, officina del dolore, teatro per antonomasia. Il luogo dove il non detto si sedimenta fino a esplodere. Lidi incastona la vicenda dei Pollitt dentro uno spazio marmoreo, candido e cimiteriale: una camera ardente per affetti in decomposizione. Le scene di Nicolas Bovey trasformano il palcoscenico del Teatro Vascello in un mausoleo post-funzionale: quattro pareti impenetrabili, levigate, anonime, simbolo di un silenzio domestico che diventa sarcofago. Uno specchio – maneggiato con ambiguità performativa dallo spettro di Skipper – funge da varco simbolico, da filtro tra interno ed esterno, tra apparenza e rovello. È in quella superficie riflettente che si misura la distanza tra ciò che si è e ciò che si dice di essere.
Il testo, nella traduzione precisa e asciutta di Monica Capuani, si svolge tra i tagli della menzogna. Qui tutto si dice senza mai dirlo. L’alcolismo è dolore, la sterilità è disfatta sociale, l’omosessualità è colpa, la maternità è ossessione. Non esiste innocenza. Non esiste catarsi. Solo una lenta e implacabile resa dei conti che avviene – significativamente – nel giorno del compleanno di Big Daddy, il patriarca morente che crede ancora di poter governare le vite dei suoi. Nicola Pannelli è un Big Daddy che si muove tra sberleffo e disincanto. Uomo che si è fatto da sé, dominatore di un microcosmo che lo teme e lo idolatra, incarna il declino maschile con tutta la sua virulenza reazionaria. Lo affianca una Orietta Notari intensa e dolorosa, madre ormai ridotta al ruolo di comparsa nella grande messa in scena familiare. Ma il cuore pulsante dello spettacolo è la Margaret di Valentina Picello: una “gatta” che sa di essere sul punto di cadere, ma che si aggrappa a ogni singola parola, a ogni sorriso stirato, a ogni menzogna. L’attrice non la interpreta: la consuma. La lascia graffiare e supplicare, la fa scivolare da diva sgangherata a creatura disperata senza mai perdere quella sottile dignità che si acquista solo nel dolore. È lei a reggere la prima parte dello spettacolo, trascinandoci nel suo monologo da camera, in cui la ferocia si mischia al bisogno disperato di essere vista.
Di fronte a lei, il Brick di Fausto Cabra: enigmatico, attonito, spettrale. È un corpo che si nega, un’identità che si frantuma. Cammina zoppo, metafora vivente di una virilità ferita, amputata. Lidi lo circonda di fantasmi, lo incastra tra lo spettro dell’amico morto e lo specchio della propria impotenza. Il dolore per Skipper non è più solo allusione: Riccardo Micheletti lo incarna con presenza discreta eppure costante. Non è più solo un passato da rimuovere, ma un presente con cui convivere. Tra le note di questo dramma lancinante, spiccano anche le interpretazioni di Giuliana Vigogna (una Mae famelica e volgare al punto giusto), di Giordano Agrusta (un Gooper meschino e frustrato), e della piccola Greta Petronillo, icona muta e perturbante di una generazione cresciuta tra le rovine. La regia gioca con i simboli, li manipola fino al limite. Le bottiglie che invadono la scena, portate ossessivamente da Skipper, diventano trappole visive e sonore, ostacoli fisici e psichici.
Ma proprio nel loro accumulo – e nella loro banale rimozione finale – si sfiora il rischio dell’incoerenza. Il segno, potentissimo all’inizio, viene via via neutralizzato. Idem lo specchio, strumento drammaturgico denso, ma sovraccaricato di funzioni fino alla saturazione. Eppure, è proprio nel disordine di questi simboli che Lidi trova la sua chiave: un teatro in bilico, dove la regia non ha paura di esporsi, dove l’eccesso può diventare slancio poetico, dove il troppo non è mai abbastanza quando si parla di dolore. Certo, non tutto fila liscio. Alcune uscite di scena restano goffe, la presenza del reverendo (Nicolò Tomassini) è marginale e inutilmente diluita. La danza del “dottor morte”, che chiude la pièce con una nota farsesca, risulta posticcia. Ma tutto questo conta poco davanti alla forza complessiva dello spettacolo, alla sua tensione etica, alla volontà di non indorare nulla. La gatta sul tetto che scotta secondo Leonardo Lidi è un teatro della ferita. Una ferita che pulsa, che non si rimargina, che non cerca empatia. È un teatro che parla di famiglie per parlare di tutto il resto. Un teatro scomodo, che ci costringe a guardarci dentro, e a capire che nessuno – nemmeno noi – si salva davvero. Photocredit Luigi De Palma
Roma, Teatro Vascello: “La gatta sul tetto che scotta”
