Torino, Teatro Regio, Stagione lirica 2024-25
“HAMLET”
Opera in cinque atti di Michel Carré e Jules Barbier da William Shakespeare
Musica di Ambroise Thomas
Hamlet JOHN OSBORN
Ophélie SARA BLANCH
Gertrude CLÉMENTINE MARGAINE
Claudius RICCARDO ZANELLATO
Laërte JULIEN HENRIC
Lo spettro del defunto re ALASTAIR MILES
Marcellus ALEXANDER MAREV
Horatius TOMISLAV LAVOIE
Polonius NICOLÒ DONINI
Primo becchino JANUSZ NOSEK
Secondo becchino MACIEJ KWASNIKOWSKI
Orchestra e coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Jérémie Rhorer
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Regia Jacopo Spirei
Scene Gary McCann
Costumi Giada Masi
Coreografia Ron Howell
Luci Fiammetta Baldiserri
Torino, 18 maggio 2025
Il Regio di Torino è un po’ la piccola Elsinore italiana almeno in relazione all’opera di Thomas. A Torino è andata in scena la prima edizione italiana in lingua originale (2001) e ora va in scena il primo allestimento scenico moderno della prima versione dell’opera con la parte del protagonista scritta per tenore come originariamente pensato. Solo in secondo tempo, non avendo trovato un interprete in linea con la propria visione del ruolo Thomas decisa di riscriverlo per baritono destinandolo a Jean-Baptiste Faure. Un ideale legame tra Torino e l’opera di Thomas che ha arriso benevolo a questa produzione, a parere dello scrivente non solo il miglior titolo dell’intera stagione ma una produzione destinata a restare nella storia – almeno recente – del teatro torinese.Merito della riuscita la piena sintonia d’intenti di tutte le componenti coinvolte in una visione estremamente coerente. L’allestimento Jacopo Spirei deve fare i conti con l’ambiguità di un lavoro sospeso tra fedeltà alla tragedia originale e decorativismo di maniera spesso mal fusi tra loro. Limite non solo di questo titolo ma di molto grand’opéra parigino successivo alla morte di Scribe e privo di quell’infallibile senso narrativo del maestro del
genere. Spirei opta decisamente sul versante della tragedia. Le parti più leggere sono come incorniciate, tableaux che fanno cornice al dramma che risulta dominante. L’ambientazione è trasposta al secondo Ottocento, coeva alla composizione dell’opera e non ignora di quanto fatto da Kenneth Branagh nella trasposizione cinematografica del dramma shakespeariano. Branagh per l’ambientazione ma l’immaginario visivo è più cupo, più gotico e strizza l’occhio – in modo esplicito nella pantomima della morte di Gonzago – all’immaginario estetico di Tim Burton. La reggia è sontuosa ma ovunque compaiono segni di decadenza, raggelante il cimitero trasformato in uno squallido obitorio i cui i becchini giocano con i cadaveri ridotti a tetre marionette. Centrali i temi dell’innocenza perduta – incarnati dai doppi infantili dei protagonisti – e della parola tradita che accompagnano l’intero scorrere dell’opera con la sempre frustrata volontà del protagonista di ritornare a quei tempi sereni per poi ritrovarsi a regnare su un mondo in totale rovina, ormai mera larva manovrata da forze superiori. In quest’ottica acquista un senso il taglio della scena pastorale che apre il IV atto che tutto si concentra nella follia di Ofelia, trasformata dal regista in un incubo popolato di fantasmi. La direzione di Jérémie Rhorer si muove nella stessa direzione. Il giovane maestro francese dirige con mano fermissima e ha dell’opera una visione drammatica e contrastata. Prevalgono sonorità dense, ricche, ombre oscure su cui domina un senso tragico e arcano. Una visione che sacrifica in parte le oasi più liriche ma da all’incostante partitura una forza espressiva innegabile anche nei momenti dove ci si aspetterebbe un tono più elegiaco, come nella follia di Ofelia in cui un senso di gelo spettrale s’insinua nelle visioni bucoliche della
sventura fanciulla. Rhorer esalta al meglio la ricca scrittura di Thomas che fa ampio uso di strumenti solistici sempre perfettamente valorizzati senza mai perdere il senso complessivo dell’andamento orchestrale. Così ben diretta l’orchestra del Regio suona al suo meglio così come magistrale è la prova del coro, sempre una garanzia di qualità musicale e di capacità sceniche. La versione tenorile dona al protagonista un carattere più giovanile e irruento. Difficile pensare a interprete migliore di John Osborn la cui voce forse non sarà tra quelle più belle per timbro e colore ma sfoggia sicurezza vocale assoluta. Conoscitore attento del grand’opéra e delle sue peculiarità stilistiche affronta Hamlet fondendo la robustezza del settore centrale – la parte insiste molto su quella parte della tessitura – ad acuti facili e sicuri resi con suono misto secondo la più pure tradizione francese. Il canto è nobile, elegantissimo, arricchito da un gioco chiaroscurale attendo e preciso. Musicista raffinato e interprete sensibile Osborn coglie ogni sfumatura del personaggio dandone una lettura a tutto tondo di straordinaria ricchezza. L’altro elemento di forza del cast è la Gertrude di Clémentine Margaine. Mezzosoprano dalla voce ampia e ricchissima di armonici, splendidamente proiettata e interprete capace di rendere tutte le sfumature di un personaggio particolarmente ricco nel gioco degli affetti e delle emozioni. Vocalmente meno in forma il suo sposo. Riccardo Zanellato canta Claudius con grande sensibilità interpretativa e trova accenti di autentica sincerità nella preghiera del III atto ma in questo titolo la voce ci è parsa
meno duttile che in altre occasioni. Sara Blanch è un’Ophélie di trepidante lirismo. La voce non è grande ma ben emessa e ottimamente controllata, del personaggio vengono evidenziati i tratti più lirici e cantabili rispetto a quelli più virtuosistici. Qualche acuto suona teso (in particolare la puntatura al termine della prima aria) ma nella scena della follia trova accenti di autentica commozione. Una lettura seria e sofferta del ruolo che si inserisce perfettamente nel taglio registico e direttoriale. Julien Henric dona a Laërte una voce di bella freschezza tenorile unita a un canto pulito ed elegante. Alastair Miles, veterano di tante registrazioni Opera Rara, trova accenti di grande autorevolezza nei panni dello Spettro ma la voce appare ormai arrochita e l’emissione faticosa. Perfettamente centrate le numerose parti di fianco. Nicolò Donini è scenicamente perfetto come Polonius oltre che cantarlo con gusto e proprietà, considerazioni analoghe per Alexander Marev (Marcellus), Tomislav Lavoie (Horatio) mentre Maciej Kwaśnikowski e Janusz Nosek danno il giusto rilievo alla sguaiata canzone dei becchini così teatralmente efficacie nello stridente contrasto con l’atmosfera del momento. Foto Daniele Ratti/Mattia Gaido