Cremona, Teatro Ponchielli, Monteverdi Festival 2025
“ORFEO ED EURIDICE”
Azione teatrale in tre atti su libretto di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Christoph Willibald Gluck
Orfeo CECILIA BARTOLI
Euridice e Amore MÉLISSA PETIT
Les Musiciens du Prince – Monaco
Il Canto di Orfeo
Direttore Gianluca Capuano
Maestro del Coro Jacopo Facchini
Cremona, 11 giugno 2025
Leggere il nome di Gluck nel programma di un Festival dedicato a Monteverdi potrebbe destare qualche perplessità. Ma se persino il rivoluzionario, col suo voler uccidere i padri, finisce per resuscitare i nonni, a maggior ragione farà lo stesso il più moderato riformatore. In fondo, la cosiddetta «riforma gluckiana» (in verità un fine progetto diplomatico del Principe Kaunitz, con la complicità del conte Durazzo, e gli ingegni compositivo di Gluck, letterario di de’ Calzabigi e coreografico dell’ingiustamente marginalizzato Angiolini) altro non fa che sfrondare l’opera italiana del sovraccresciuto baroccume, e riportarla, per dir così, all’originario ceppo monteverdiano. D’altro canto però, se l’opera italiana ha da esser riformata, è necessariamente al suo contraltare francese, la Tragédie Lyrique, che bisogna guardare. E non soltanto per ragioni puramente artistiche (su tutte, la preminenza del testo poetico sul virtuosismo canoro e l’essenzialità narrativa) ma anche produttive: il sistema impresariale italiano mal si presta ad intellettualistiche sperimentazioni, mentre a Corte non valgono le leggi del mercato (e in Francia l’opera è, da sempre, questione di Stato). Sicché non stupisce che dopo l’internazionale viennese, sua culla, l’Orfeo abbia raggiunto quella parmense, di corti, avamposto della parigina. Difatti, roccaforte della cultura francese nella penisola, già con Guillaume du Tillot e, tramite il solito Algarotti, con il napoletano Tommaso Traetta, a Parma il vento del teatro francese aveva preso prepotentemente a spirare.
Per l’occasione Gluck rivede la troppo esigente orchestrazione viennese, e sfoltisce leggermente perché la sua «azione teatrale» in tre atti deve diventare il terzo ed ultimo atto di uno spettacolo composito, «Le feste d’Apollo, celebrate sul Teatro di Corte nell’agosto del MDCCLXIX per le auguste seguite nozze tra il Real Infante Don Ferdinando e la R. Arciduchessa Infanta Maria Amalia».Ma soprattutto riscrive la parte del protagonista per un nuovo interprete: sempre un castrato, Giuseppe Millico, questa volta però dalla voce non di contralto, com’era quella di Gaetano Guadagni a Vienna nel 1762, ma di soprano. È questo il tratto saliente della versione parmense del 1769, ed è questo il motivo dell’insolita scelta: la riscrittura per Millico calzando splendidamente alla voce di Cecilia Bartoli. La ripresa del Coro iniziale “Ah! Se intorno a quest’urna funesta” in chiusura dell’opera è una soluzione drammaturgica di indubbio effetto e sottile sagacia. Così si ripristina rettamente secondo le fonti antiche la «catastrofe» da de’ Calzabigi a malincuore sacrificata all’assolutismo del lieto fine, e si evita quel terzetto che, per pochi minuti di musica, imporrebbe un’interprete di più. Si tratta, è vero, di un arbitrio: mai un finale tragico avrebbe potuto coronare un festeggiamento nuziale. Ma cosa c’è di più lontano dalla prassi esecutiva originale del ligio rispetto di una particolare versione dell’opera?
Gianluca Capuano, fra i massimi esperti di pratiche esecutive antiche, già al Festival di Salisburgo 2023, con gli stessi complessi e lo stesso cast, aveva messo a punto questa nuova versione dell’Orfeo: basata su quella parmense, ma con l’aggiunta dell’«Air» (il numero di danza) delle furie dalla successiva versione parigina del 1774, e con l’inedito finale che s’è detto. Con la differenza che a Cremona l’Ouverture è ritornata al suo posto, laddove a Salisburgo ne faceva le veci un numero dal balletto Don Juan del 1761. Per dire che un approccio libertario, anzi libertino, volto al piacere del fare ed ascoltare musica, è forse il più congeniale al repertorio settecentesco.
Con Les Musiciens du Prince – Monaco l’intesa è perfetta. Laccio alla libertà esecutiva è solo la squisita sensibilità del concertatore accortissimo. Ne risulta una sterminata varietà, sia nell’articolazione della frase sia nella produzione timbrica di tinte diversissime. Il Canto di Orfeo, diretto da Jacopo Facchini, è del pari un complesso affiatato di finissimi musicisti, capaci di trattare le proprie voci quali strumenti: come suggeriscono i trattatisti antichi e come, forse, dovrebbe esser sempre. Dolcissima nel ruolo d’Euridice, in quello d’Amore un filo caricaturale nell’espressione, Mélissa Petit ha voce deliziosa e timbratissima, morbida e luminosa, che mette al servizio del testo. Del resto, nel saper far brillare una cantante, Capuano è formidabile. Cecilia Bartoli è, come tutti sanno, musicista, cantante, impresaria; e tutt’e tre ai massimi livelli. Voce personalissima ed immediatamente riconoscibile, vitalità ed esuberanza irresistibili fanno della grande cantante più che una diva una vera icona o, se si può dire così, una «maschera vocale». Quelli che potrebbero sembrare eccessi espressivi in realtà non lo sono, perché appartengono al suo carisma naturale: non si tratta di effetti, né di forzature, ma della sua spontanea, e straordinaria, disposizione. Al contempo, la Bartoli è ormai una tipologia vocale: come la Falcon con il «soprano Falcon», così la Bartoli potrebbe dare il nome ad un «soprano Bartoli». Che si distinguerebbe per la bellezza e la corposità del timbro più che per la vastità di proporzioni della voce; e soprattutto per la straordinaria versatilità, sia prettamente musicale sia espressiva in senso lato, e l’attitudine scenica. Il sommesso finale, con quel suo pianissimo sospeso nell’irrealtà, ha scatenato quasi un minuto intero di estatico silenzio, cui è seguito un festoso ed interminabile delirio d’applausi.
Cremona, Monteverdi Festival 2025: “Orfeo ed Euridice”
