Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Sinfonica 2024-2025
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Martin Rajna
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n. 4 in si bemolle maggiore op. 60; Antonín Dvořák: Sinfonia n. 8 in sol maggiore op. 88
Venezia, 30 maggio 2025
Due capolavori del grande repertorio sinfonico ottocentesco costituivano il programma del recente concerto, che vedeva per la prima volta sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice Martin Rajna, tra i più notevoli giovani direttori ungheresi degli ultimi tempi, nominato nel 2023, appena ventisettenne, direttore principale dell’Hungarian Opera di Budapest. Due sinfonie – la Quarta di Ludwig van Beethoven e l’Ottava di Antonín Dvořák –, che, peraltro, non sono abbastanza conosciute dal grande pubblico, in quanto di fatto eclissate da analoghe composizioni ben più famose, presenti nel catalogo dei rispettivi autori. Dopo aver terminato all’inizio del 1804 l’Eroica, Beethoven si dedicò a una nuova partitura sinfonica in do minore – la futura Quinta –, che sarebbe stata completata solamente all’inizio del 1808: un impegno gravoso, durato quattro anni, che peraltro non impedì al compositore di portare a termine il Quarto concerto per pianoforte, il Concerto per violino, le prime due versioni di Fidelio, né di scrivere interamente un’altra sinfonia, la Quarta, appunto. Quasi un’oasi di serenità fra le monumentali Terza e Quinta, la Sinfonia n. 4 op. 60 è scevra da ambizioni titaniche, percorsa com’è ancora da una grazia settecentesca. Gradita a Schubert – che nelle sue prime Sinfonie seguiva l’esempio haydniano –, fu definita da Schumann “una slanciata ragazza greca fra due giganti nordici”. In effetti, essa rispecchia la leggiadria e gli schemi consacrati della tradizione classica, articolandosi in quattro tempi, di cui il primo preceduto da un’introduzione lenta. Una consuetudine che l’Eroica – aperta quasi immediatamente dal primo tema – pareva aver accantonato per sempre. La Quarta, dunque, rappresenta per certi versi un ritorno al passato – ovviamente come può realizzarlo un genio assoluto –, inserendosi nel solco segnato da Haydn. Il che si ripeterà qualche anno dopo con l’Ottava.
Intensamente espressiva ma senza alcuna affettazione, scevra da ogni compiacimento esteriore, attenta a valorizzare il parametro timbrico nella frequente contrapposizione archi-fiati, particolarmente energica nella scansione ritmica è risultata la lettura proposta dal direttore ungherese, impeccabilmente supportato da un’orchestra di ‘solisti’. Un misterioso clima di attesa ha caratterizzato l’Adagio introduttivo fino alle brusche strappate orchestrali, che hanno preceduto l’Allegro vivace, dove sono emersi subito i tratti caratteristici – anche dal sapore ironico – che appartengono a tutta la partitura: l’energia delle cellule ritmiche (sincope ritmica nel primo tema), la contrapposizione fra gruppi strumentali, il rilievo dolcemente espressivo dei legni, la raffinatezza cameristica dei giochi timbrici. Nell’Adagio si è apprezzata la cantabilità delle idee musicali, sostenute da un principio ritmico giambico, che ha conferito unità al movimento. Ancora un principio ritmico, spesso sincopato, è risaltato nel Menuetto – un ritmo binario calato in una misura ternaria, in apertura del terzo movimento, Allegro vivace –, a cui successivamente si è contrapposto il Trio con la cantilena dei fiati. Ha chiuso la Sinfonia un Allegro ma non troppo estremamente brillante, simile nell’impostazione a certi Finali di Haydn, ma con una ruvidezza ritmica e dei contrasti dinamici decisamente accentuati; una conclusione ad effetto ha riaffermato con decisione i contenuti giocosi della partitura. Un’analoga impronta di serenità, di levità, ma anche di teatralità si è colta nella Sinfonia n. 8 in sol maggiore di Dvořák, dove si rispecchia la calma interiore raggiunta dall’autore nella sua fase matura, ormai conscio di essersi conquistato un posto di rilievo nell’ambito del sinfonismo romantico mitteleuropeo. Sebbene seguita, a quattro anni di distanza, dalla celeberrima sinfonia “Dal nuovo mondo” – Nona del catalogo definitivo – questa Ottava in sol maggiore, del 1889, costituisce il vero culmine dell’arte sinfonica dell’autore, e al tempo stesso il punto più avanzato nel processo di sviluppo di una musica nazionale ceca: un punto rispetto al quale la Nona rappresenterà un vero e proprio passo all’indietro. Se Brahms era il suo riferimento più vicino, Dvořák nell’Ottava Sinfonia si riallaccia con naturalezza a Schubert: lo attestano la vena melodica ricca e pregnante, gli squarci evocativi spesso oscillanti fra maggiore e minore, il ritorno ciclico di sezioni tematiche senza sviluppo. Tutti elementi che Rajna ha saputo far
apprezzare con la sua straordinaria interpretazione, guidando l’orchestra, sempre encomiabile in tutte le sue sezioni, con gesto stringato quanto incisivo. Ispirato al romanticismo nazionalista slavo, il primo movimento, Allegro con brio, ha affascinato nell’evocare suoni e colori della natura, oltre che di qualche festa paesana: nel tema iniziale, un appassionato cantabile in sol minore, si sono messi in luce i violoncelli, degnamente accompagnati da clarinetti, fagotti e corni; è stata poi la volta del flauto intonando il successivo un motivo gorgheggiante, enunciato dapprima come un’eco lontana della natura e poi dilatato fino a diventare una solenne fanfara, dai colori accesi e squillanti. Nel secondo movimento, Adagio, il paesaggio spirituale si è trasfigurato sconfinando verso l’intimità più raccolta e meditativa, in un alternarsi di stati d’animo: malinconico, fiero, nostalgico, elegiaco. Altamente suggestivo il terzo tempo, Allegretto grazioso, contenente uno degli episodi più memorabili di tutta la produzione di Dvořák: un leggiadro, sognante tema di valzer in minore, che ha preso vigore sul cullante ritmo di 3/8 per divenire a poco a poco, dopo l’affermazione in maggiore del Trio, quasi un’apoteosi della danza. Mirabolante il movimento finale, Allegro ma non troppo, concepito in forma di tema con variazioni: una fanfara di trombe ha richiamato l’attenzione; più oltre un tema di danza ha visto come protagonista il violoncello con contrappunto del fagotto, prima che il tema stesso fosse rielaborato in quattro variazioni; seguivano un motivo di marcia in tre parti e, successivamente, una nuova serie di variazioni più meditative; improvvisa la breve coda conclusiva con l’orchestra in fortissimo. Pubblico entusiasta per il direttore e gli strumentisti.
Teatro La Fenice: debutto veneziano per Martin Rajna, con Beethoven e Dvořák
