Madrid, Teatro Real: “Les Indes galantes”

Madrid, Teatro Real, Temporada 2024-2025
“LES INDES GALANTES”
Opéra-ballet in un prologo e quattro quadri su libretto di Louis Fuzelier
Musica de Jean-Philippe Rameau
Amour / Phani / Fatime / Zima JULIE ROSET
Hébé / Émilie / Zaïre / Atalide ANA QUINTANS
Valère / Don Carlos / Tacmas / Damon MATHIAS VIDAL
Bellone / Osman / Huascar / Ali / Don Alvar ANDREAS WOLF
Cappella Mediterranea
Choeur de Chambre de Namur
Structure Rualité
Direttore Leonardo García-Alarcón
Maestro del Coro Thibaut Lenaerts
Regia e coreografia Bintou Dembélé
Costumi Anaïs Durand Munyankindi
Luci Benjamin Nesme
Drammaturgia Simon Attab
Prima rappresentazione al Teatro Real di Madrid
Versione in forma semiscenica e coreografica
Madrid, 29 maggio 2025

L’anello luminoso è il sole, il mondo, il circolo attorno al quale si muove l’intera comunità umana; nel suo movimento, che si sprigiona dal centro, è l’essenza del concerto coreografico con cui Bintou Dembélé traduce Les Indes galantes di Rameau. Giunge a Madrid lo spettacolo che nel 2019 entusiasmò l’Opéra Bastille di Parigi, segnando l’inizio di una collaborazione internazionale tra la coreografa francese e il direttore e clavicembalista svizzero-argentino Leonardo García-Alarcón. È anche la prima volta che quest’opera barocca si esegue al Teatro Real, il che aggiunge un tassello al mosaico sempre più composito del suo repertorio. Le esigenze tecniche dell’allestimento sperimentale di Parigi impediscono la sua esportazione altrove in versione integrale; o meglio, questa è la ragione ufficiale che serve di avvertenza a proposito della selezione dell’opéra-ballet originale che dà corpo alla tournée. Un filologo direbbe che l’obbiettivo è l’eterodossia: non si tratta di un’esecuzione completa, alcuni numeri sono trasposti, non ci sono scene, il coro, gli strumentisti e i solisti occupano tutti gli angoli possibili del teatro e della sala, tranne dove ci si attende che dovrebbero essere (un cronista spagnolo rileva, con stupore malcelato, che la prima voce che si ascolta dopo la sinfonia proviene dal palco centrale, riservato alla famiglia reale!). Eppure, se i suoni si originano dai palchi, dalle gallerie, dai corridoi, è ancora una volta per contribuire all’effetto avvolgente del movimento circolare, questa volta trasformato in musica. Le Turc généreux, Les Incas du Pérou, Les Fleurs e Les Sauvages sono i sottotitoli delle quattro vicende ambientate in un contesto culturale distinto (l’Impero Ottomano, il Perù precolombiano, un giardino orientale di ispirazione persiana e i territori delle popolazioni indigene del Nord America), dove l’amore galante supera ostacoli di gelosia, potere o diversità, per risolversi sempre in modo armonioso. Il tono è colto, elaborato, ma non elitario; anzi, questa specie di fantasia esotica intonata da Rameau è specchio di ciò che l’Europa voleva ritrovare nelle popolazioni degli altri continenti, secondo l’inconfessata illusione di trasportarvi e applicarvi i propri paradigmi sociali ed etici. L’operazione ideata da Dembélé non è eterodossia, bensì volontà quasi disperata di fare della musica di Rameau un corpo vivo e vigile di danzatori, che incarnano la folla urbana di una metropoli occidentale. L’ottimismo del libretto di Louis Fuzelier, con cui si idealizza l’imperialismo illuminato del secolo XVIII, diventa nello spettacolo della Structure Rualité ottimismo della convivenza, afflato di fratellanza che nella musica ritrova un rito di riconoscimento collettivo. Per questo, durante l’ouverture – staccata da García-Alarcón con tempi assai più rapidi del dovuto – i danzatori giungono sul palcoscenico, si salutano, si abbracciano, gestiscono in maniera ritualizzata, appunto perché si preparano alla celebrazione di una liturgia sociale; che non è altro se non la vitalità della musica stessa di Rameau. In tal senso, l’estetica dell’hip hop che riguarda l’abbigliamento e le acconciature non è che l’elemento superficiale di un messaggio coreografico e musicale molto più complesso. Non si può neppure dire, infatti, che Dembélé abbia tramutato Les Indes galantes in un balletto contemporaneo, perché in più momenti i tersicorei non sono sulla scena e in altri si siedono sul palco per ascoltare i cantanti, come per ponderare la distanza che separa il loro vissuto da quello dell’opera di Rameau. Molto più impositivo è il coté tecnico dello spettacolo, con la ruota mobile che sovrasta il centro del palcoscenico e che con i suoi dodici fari illumina ogni spazio del teatro (investendo più volte di luce fredda anche il pubblico), costruendo geometrie luminose e delimitando grandi blocchi di ombra. Sul palcoscenico il direttore si sposta, per avvicinarsi ora all’uno ora all’altro dei tre settori sopraelevati in cui è stata distribuita l’orchestra; ora si siede al clavicembalo ora si rivolge verso la sala, per dare l’attacco agli elementi ubicati nella platea o nei palchi; anche questo, naturalmente, è parte della rappresentazione. Il pubblico di Madrid apprezza il quartetto di solisti che disimpegnano le parti vocali: Julie Roset è il soprano di coloratura che dà voce ad Amour nel Prologo e ad altre tre protagoniste dei quadri successivi; Ana Quintans è il secondo soprano; Mathias Vidal è il tenore a cui spettano i brani maschili più lirici e Andreas Wolf è il basso-baritono dalla voce più ragguardevole di tutto il gruppo. La qualità dell’esecuzione è certamente buona, ma nessuno di loro sfugge del tutto incolume o alle difficoltà del registro acuto (tenore e basso) o alle conseguenze di certa fissità nell’emissione (i due soprani). Magnifica la prova del Choeur de Chambre de Namur preparato da Thibaut Lenaerts, non soltanto per le qualità musicali, ma anche per la destrezza con cui si muove e si confonde con i danzatori della compagnia Structure Rualité. L’intensità e la pulsazione (ma non il conflitto o la violenza esasperata) sono la dimensione principale in cui si svolgono i numeri musicali, tutto sommato rispettosi della narrazione, di cui i figuranti determinano l’impatto visivo; ogni variazione coreografica, comunque, deriva dalla ricchezza della musica e delle sue suggestioni, senza bisogno di alcuna superfetazione. Anche l’apoteosi finale, dopo la celebre chaconne (che persino William Christie si dilettava ad accompagnare con il movimento della propria persona), è interamente affidata all’orchestra, sul palco vuoto di altri elementi, come per riaffermare che la conclusione è nel suono strumentale, armonico e pacificatore. Ottimismo, si diceva all’inizio, o forse, più semplicemente, sincero e incondizionato amore per l’umanità.   Foto Javier del Real © Teatro Real de Madrid