Roma, GnamC
Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea
YOKTUNUZ di Ahmet Güneştekin
Il progetto curatoriale di Sergio Risaliti e Paola Marino
con la direzione organizzativa di Angelo Bucarelli
Roma, 30 giugno 2025
La mostra YOKTUNUZ di Ahmet Güneştekin alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea non si limita a essere un’esposizione: è una detonazione silenziosa nel cuore dell’istituzione, una scultura ambientale di memoria e trauma che si insinua nella retorica museale come una scheggia infetta. Per questo, non stupisce che a dare scandalo non siano stati i contenuti, le allusioni storiche, le tensioni politiche, ma, con una comicità involontaria degna della migliore farsa italiana, “l’odore”. Sì, l’odore. Perché l’arte, nel 2025, infastidisce quando non è più inodore, quando sottrae il visitatore alla comfort zone dell’estetica climatizzata e lo costringe a percepire, anche solo per un istante, l’esistenza di un reale in decomposizione. Le scarpe nere che compongono Picco di Memoria, uno degli interventi più radicali della mostra, hanno suscitato un coro di lamentele: personale del museo con mascherine, guide turistiche infastidite, comunicati sindacali, richieste di ispezione da parte della ASL. Eppure l’opera non ha fatto altro che portare nella GNAM la fisicità di ciò che la cultura visiva tende a espellere: il corpo senza estetica, la materia senza epurazione, l’assenza che non sa farsi bella. Ahmet Güneştekin, artista turco di origine curda, da anni lavora su un’estetica della perdita che non consola, ma denuncia. Le sue opere non illustrano un messaggio, lo incarnano.
Non si accontentano di evocare: insorgono. E se l’arte, come ci ha insegnato una lunga genealogia novecentesca da Artaud a Beuys, è anche disfunzione, allora la puzza — sì, la puzza — è l’eccesso simbolico che rivela la distanza tra rappresentazione e realtà. Perché la deportazione non sa di lavanda, la prigione non sa di incenso, il genocidio non ha l’odore del deodorante per ambienti. In un’epoca in cui anche l’estetica della catastrofe è stata deodorata per renderla vendibile, Güneştekin riconsegna al museo ciò che il museo aveva sterilizzato: il corpo politico dell’arte. Ma non si cada nella trappola del fraintendimento. YOKTUNUZ non è una mostra “odorosa”, è una mostra densa. Non si esaurisce in Picco di Memoria, né si riduce alla polemica. Lungo il percorso espositivo si succedono opere monumentali che interrogano la forma attraverso il trauma, il colore attraverso il lutto, la materia attraverso la storia. Le sculture totemiche, le superfici metalliche ossidate, i pattern visivi che richiamano una ritualità pan-mediterranea de-territorializzata eppure ostinatamente orientale, disegnano una mappa mentale della resistenza. Non una resistenza armata, ma plastica.
Non un discorso sulla libertà, ma un corpo a corpo con l’oblio. Nel cuore stesso del museo — spazio consacrato alla costruzione dell’identità nazionale post-unitaria — Güneştekin inocula una forma di iconoclastia sottile ma virale. Le sue opere non si limitano a esistere: infestano. Non cercano il confronto con la collezione permanente, la mettono in crisi. Accanto al marmo canoviano di Ercole e Lica, l’installazione YOKTUNUZ erige un contro-monumento all’assenza. Lì dove Canova esalta l’eroismo neoclassico, Güneştekin espone il vuoto lasciato dai vinti della Storia. È un sabotaggio silenzioso, una contronarrazione in forma di materia bruciata e peso inelaborabile. La mostra si muove come un rito laico, in cui il sacro non è più verticale ma orizzontale. È inciso nella pelle delle cose, stratificato nella materia. Non c’è ieraticità, ma febbre. Non c’è contemplazione, ma esposizione. Ogni opera è un gesto di insubordinazione simbolica: il ferro ossidato, le stratificazioni cromatiche esasperate, il ritmo ossessivo delle forme non parlano all’occhio, ma al nervo.
La mostra non vuole piacere, vuole restare. Non chiede consenso, ma attenzione. In un sistema dell’arte in cui il politically correct e il decorativismo spirituale anestetizzano tutto, Güneştekin scompagina il canone con una brutalità necessaria. Le figure che emergono dalle sue opere non sono personaggi ma presenze. Né figurative né astratte, né mitiche né storiche: sono proiezioni liminari, archetipi contaminati da secoli di violenza e oblio. Non raccontano una storia, ma ne portano i resti. Non sono icone, ma sintomi. Il loro corpo non è costruito per essere visto, ma per essere percepito. L’esilio non è un tema, ma un paesaggio affettivo in cui lo spettatore viene costretto a camminare senza mappe. Ogni opera è una ferita che si rifiuta di rimarginarsi, un palinsesto di omissioni e sopravvivenze. È qui che l’intervento di Güneştekin tocca il punto più alto della sua efficacia: YOKTUNUZ non è una mostra sulla memoria, ma un dispositivo che attiva la rimozione. Non dice, ma evoca. Non rappresenta, ma presenta.
L’assenza non viene tematizzata, viene resa corpo, ingombro, materia. L’arte torna a essere presenza ingombrante nel museo, che da dispositivo di celebrazione si trasforma in teatro dell’interrogazione. Chi ha diritto a essere esposto? Quale dolore è ammesso? Chi può permettersi di non piacere? La reazione al tanfo delle scarpe, allora, non è che il sintomo di un disagio più profondo. Il disagio di un sistema culturale che ha smesso di tollerare l’eccesso, che si rifugia nel decoroso e che scambia il gradevole per il giusto. Güneştekin, con sarcastica lucidità, lo ha capito meglio di chiunque altro. “La morte non profuma”. Non è una battuta. È un assioma critico. È il rovesciamento di una civiltà museale che pretende di piangere senza sporcarsi, di ricordare senza toccare, di celebrare senza compromettersi. Ecco allora il paradosso. Il vero scandalo non è l’odore. Il vero scandalo è che ci sia ancora un artista capace di disturbare.
Che YOKTUNUZ riesca a farlo senza effetti speciali, senza tecnologia immersiva, senza slogan, ma solo con materia, forma e insistenza, è il suo merito più grande. In un panorama espositivo che scivola sempre più nel simulacro, Güneştekin ha restituito al museo la sua funzione primaria: essere luogo di discontinuità, di frizione, di vertigine. Per chi cerca l’arte che consola, c’è sempre la sala accanto. Per chi ha ancora bisogno di un’arte che brucia, YOKTUNUZ resta lì, nella sua stanza secondaria, a ricordare che l’assenza, quando prende forma, non chiede permesso. E non ha bisogno di profumare.