Roma, Musei Capitolini: “Una Regina Polacca in Campidoglio: Maria Casimira e la Famiglia Reale Sobieski a Roma”

Roma, Musei Capitolini
Palazzo Caffarelli
UNA REGINA POLACCA IN CAMPIDIGLIO: MARIA CASIMIRA E LA FAMIGLIA REALE SOBIESKI A ROMA
A cura di Francesca Ceci, Jerzy Miziołek con Francesca De Caprio.
Promossa da Roma Capitale, Assessorato alla CulturaSovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, con il patrocinio dell’Ambasciata di Polonia, dell’Istituto Polacco di Roma e dell’Accademia Polacca delle Scienze a Roma
Organizzazione di Zètema Progetto Cultura

Roma, 10 giugno 2025
Non esistono solo monarchie, ma anche le messe in scena del loro fantasma. È precisamente questo il fulcro concettuale della mostra Una Regina polacca in Campidoglio: Maria Casimira e la famiglia reale Sobieski a Roma: non tanto la restituzione documentaria di una presenza storica quanto l’analisi – silenziosa ma precisa – di un immaginario dinastico costruito attraverso strategie visive, dispositivi di memoria e articolazioni spaziali. Più che narrare un passato, l’esposizione lo modella, lo organizza, lo mette in scena: Maria Casimira e la sua discendenza vengono così traslate da soggetti storici a figure sintomatiche, specchianti un’intera epistemologia del potere in esilio. A questo titolo, ciò che si espone non è una semplice regina vedova né un casato disperso: è un’intera grammatica di rappresentazione che investe il corpo regale, le sue derive simboliche, le sue modalità di sopravvivenza iconografica all’interno di una Roma che da secoli funziona come archivio visivo e semantico della sovranità europea. Il progetto, articolato in cinque sezioni e ospitato al terzo piano di Palazzo Caffarelli ai Musei Capitolini, evita la trappola della cronaca lineare. La mostra funziona piuttosto come un palinsesto iconologico: ogni sala è un nodo concettuale, ogni oggetto un segno che rinvia non solo alla figura di Maria Casimira ma all’intero campo semantico che la circonda – esilio, alterità, cerimoniale, patriottismo, teatro. La regina, d’altronde, non viene soltanto “esposta”: viene costruita. Le sue immagini non sono riproduzioni ma atti di enunciazione. Dai ritratti alle epigrafi, dalle lettere autografe ai busti bronzei, ogni oggetto è carico di funzioni discorsive. Il corpo di Maria Casimira – e poi quello di Maria Clementina Sobieska – è un corpo “parlante”, sempre al centro di un dispositivo performativo: basti pensare alla cappella ricreata del Palazzetto Zuccari, che ospita la riproduzione della volta affrescata con i suoi monogrammi coronati. Non si tratta qui di filologia decorativa, ma della mise-en-scène di una identità che non trova posto nelle carte diplomatiche ma si incarna negli interstizi culturali della città. L’esilio polacco si trasforma in racconto per immagini, e Roma – città-palinsesto per eccellenza – ne diventa il medium. Non è un caso che molte opere, epigrafi e iscrizioni siano testimonianze “in situ” di questa presenza regale dislocata. Il percorso sobieschiano che dalla Basilica dei Santi Apostoli passa per San Luigi dei Francesi, Santa Maria degli Angeli e via fino a Trinità dei Monti non è solo topografico, ma anche semiotico: è un percorso attraverso monumenti come atti linguistici, gesti di reinscrizione del potere nello spazio urbano. In questa rete di tracce, la sezione più potente resta quella dedicata alla regina “senza regno” Maria Clementina Sobieska Stuart. La sua presenza – evocata attraverso busti, stampe, ma soprattutto suoni – diventa figura paradigmatica di una regalità interdetta, confinata alla rappresentazione. La sua assenza di potere reale è inversamente proporzionale all’intensità con cui il suo corpo è stato iconizzato. Le arie barocche, appositamente registrate per la mostra e tratte da opere che la vedevano celebrata come destinataria simbolica, offrono un ulteriore livello di significazione: il suono qui è forma di sopravvivenza. La voce, sospesa nel tempo, ricrea la regina come figura acustica del desiderio politico. Il catalogo dell’esposizione, coeditato con l’Università di Varsavia, non tenta di nascondere questa strategia. Lungi dal limitarsi alla descrizione delle opere, propone una lettura critica che affronta la presenza sobieschiana come sintomo della tensione tra identità nazionale e cosmopolitismo romano, tra mitologia dinastica e pratiche urbane. La sezione conclusiva, centrata sull’apoteosi di Giovanni III Sobieski come trionfatore della battaglia di Vienna, agisce come contrappunto a questa riflessione. La monumentalità virile del sovrano – il busto d’armatura ussara, le grandi tele eroiche – si pone in tensione con la fragilità delle regine. Qui si innesta una lettura differenziale del potere: il corpo del re è affermativo; quello delle donne Sobieski è fluido, disseminato, diasporico. L’uno agisce nel campo della retorica bellica, l’altro in quello della diplomazia culturale. La mostra si configura come un laboratorio critico su cosa significhi “appartenere” a una città. Maria Casimira non è romana, eppure Roma la riassorbe; non ha un regno, eppure è ospite del Campidoglio. La sua figura destabilizza il binarismo centro/periferia, ospite/ospitante, e ci costringe a rivedere le modalità con cui una capitale costruisce il proprio racconto attraverso le presenze estranee. L’esposizione trova nei prestiti – dal Castello Reale di Varsavia, dal Museo di Roma, dalla Dom Polska, dall’Educandato della SS. Annunziata di Firenze – un ulteriore dispositivo di destabilizzazione. Il sapere artistico non è più chiuso entro le mura cittadine, ma transita, migra, si contamina. Anche il materiale sonoro, curato con rigore filologico dall’ensemble Giardino di Delizie, agisce in questa logica rizomatica: la musica barocca diventa il vettore acustico di una memoria che sopravvive nel corpo, non nei confini. Infine, le repliche tattili delle tre opere-chiave (i ritratti di Giovanni III, Maria Casimira e Maria Clementina) e le didascalie plurilingue rendono esplicita la volontà di una fruizione plurale. Non è un atto di inclusione formale, ma un’estensione epistemologica: il sapere non è più verticale, ma orizzontale, accessibile, condivisibile. La regina senza regno parla così anche a chi, oggi, si muove nei margini del potere. Una Regina polacca in Campidoglio è dunque una mostra profondamente politica: non per i contenuti, ma per la forma che dà loro. In un’epoca che tende a fossilizzare le identità, essa interroga le dinamiche della rappresentazione, mette in crisi i limiti tra centro e margine, e riconsegna al pubblico una lettura complessa, stratificata, non lineare della storia. È un esercizio di critica visiva, un saggio in forma di esposizione. E come ogni saggio efficace, lascia una domanda sospesa: cosa resta oggi del potere, se non le sue immagini?