Roma, Palazzo Bonaparte
ELLIOTT ERWITT. Icons
curata da Biba Giacchetti con l’assistenza tecnica di Gabriele Accornero
prodotta e organizzata da Arthemisia
in collaborazione con Orion57 e Bridge Consulting Pro
Main partner della mostra la Fondazione Terzo Pilastro Internazionale con Fondazione Cultura e Arte e Poema
special partner Ricola
mobility partner Frecciarossa Treno Ufficiale
sponsor tecnico Ferrari Trento
Roma, 27 giugno 2025
«Photography is an art of observation. It’s about finding something interesting in an ordinary place.» (Elliott Erwitt)
C’è un tipo di fotografia che non si limita a fermare l’istante, ma lo riformula, lo scompone e lo restituisce al mondo sotto forma di epifania gentile. Elliott Erwitt è stato maestro in questa alchimia silenziosa. La retrospettiva Icons, ora a Roma presso Palazzo Bonaparte dopo l’applaudita tappa pisana, è più di una mostra: è un archivio dell’ironia, una camera oscura dell’intelligenza visiva, una rivelazione della grazia nel quotidiano. Erwitt è stato uno dei pochi fotografi capaci di coniugare la raffinatezza compositiva con l’irriverenza controllata, l’intuizione lirica con la precisione giornalistica. Il suo scatto non è mai decorativo, ma assertivo; mai contemplativo, ma attivamente partecipativo nella dinamica dell’osservazione. Le sue immagini non spiegano, ma insinuano, ed è proprio in questa apertura semantica che risiede la loro forza: lo spettatore è convocato non a capire, ma a sentire. A Roma, ottanta fotografie sono esposte con un rigore che esclude ogni concessione al sentimentalismo. Curata da Biba Giacchetti – in dialogo diretto con Erwitt stesso prima della sua scomparsa – la selezione raccoglie alcuni degli scatti più celebri della storia della fotografia del secondo Novecento: Nixon e Kruscev, Jackie Kennedy al funerale del marito, l’incontro tra Muhammad Ali e Joe Frazier, Marlene Dietrich e Marilyn Monroe, Che Guevara, e poi, naturalmente, i cani. Ma ridurre Erwitt a una galleria di ritratti sarebbe un grave errore: ogni suo soggetto, famoso o anonimo, è un veicolo attraverso cui si manifesta una concezione più ampia della visione.
Per Erwitt, la fotografia è uno strumento morale. Non nel senso della denuncia o della retorica, ma nella sua capacità di essere giusta, esatta, proporzionata. Il fotografo non si erge mai sopra il mondo: vi si immerge con discrezione e humour. È questo humour – elegante, calibrato, a tratti aforistico – a rendere il suo lavoro unico. A differenza di tanti autori che hanno fatto della serietà il loro marchio di fabbrica, Erwitt sa che il riso è una forma superiore di pensiero. In uno dei suoi scatti più noti, un cane minuscolo, tutto gambe, posa accanto a un padrone tagliato all’altezza dei polpacci. La composizione è perfetta, ma il significato è eccentrico: chi comanda? Chi osserva chi? In questa domanda si nasconde una riflessione sulla gerarchia, sul punto di vista, sull’antropocentrismo stesso. Il cane, nella fotografia di Erwitt, non è un vezzo né una caricatura. È, al contrario, un alter ego dell’umano, un complice, un soggetto dotato di statuto ontologico. Lo sguardo canino, spesso sorpreso grazie a piccoli espedienti – trombette, finti abbai – è più autentico di quello umano, perché privo di sovrastrutture.
Erwitt ha costruito una vera e propria iconografia della presenza animale, sovvertendo il canone del ritratto urbano con un umorismo che non graffia, ma intenerisce. Anche nei ritratti dei grandi personaggi storici, l’approccio è sempre lo stesso: abbattere la distanza. Jackie Kennedy non è una first lady, ma una donna ferita; Nixon non è un presidente, ma un corpo in tensione; Ali è colto nel momento in cui il pugno diventa gesto estetico, la boxe una danza. Erwitt non cerca mai l’effetto, ma l’equilibrio. Eppure, nelle sue fotografie, tutto è potenzialmente sovversivo, perché ogni immagine nasconde un cortocircuito narrativo. Il suo bianco e nero non è uno stile: è una necessità. Il colore, per Erwitt, era una distrazione. Il bianco e nero, invece, gli permetteva di restare essenziale, di avvicinarsi alla struttura profonda della scena, alla sua ossatura semantica. Non c’è mai una luce compiaciuta o un’ombra retorica: tutto è al servizio di quella sospensione percettiva che permette allo spettatore di proiettarsi dentro la fotografia. Molto più di altri autori coevi – si pensi a Doisneau o a Winogrand – Erwitt ha saputo fondere l’immediatezza del gesto fotografico con una costruzione mentale sofisticatissima.
Ogni sua immagine, pur nata in strada, vive della medesima architettura interna di un haiku. Nulla è superfluo, tutto è essenziale. Il suo è un pensiero visivo che si è fatto stile, e il suo stile è diventato linguaggio. Visitare la mostra di Palazzo Bonaparte significa misurarsi con un’intelligenza visiva fuori dal tempo, capace di illuminare anche l’oggi. Roma, con la sua stratificazione di epoche e contraddizioni, è il luogo perfetto per ospitare un autore che ha sempre lavorato sulle dissonanze: tra il tragico e il comico, tra la compostezza e il grottesco, tra la storia e la sua disarticolazione. Non c’è bisogno di conoscere i contesti per entrare nelle sue immagini: esse parlano direttamente a quella parte di noi che ancora riesce a sorridere nel momento più inatteso. In un’epoca che ha dimenticato il potere dell’osservazione lenta, della riflessione visiva, della costruzione di senso attraverso l’apparente insignificanza, la lezione di Elliott Erwitt resta un faro. Perché ci ricorda che la fotografia, quando è autentica, non mostra: rivela. Non intrattiene: spiazza. Non urla: sussurra. Con garbo. Con precisione. E con un’intelligenza che ci riguarda, perché ci umanizza.
Roma, Palazzo Bonaparte: “Elliott Erwitt. Icons”
