Roma, Parco Archeologico del Colosseo
MAGNA MATER TRA ROMA E ZAMA
Promossa dal Parco archeologico del Colosseo
in collaborazione con l’Institut National du Patrimoine Tunisien
è curata da Alfonsina Russo, Tarek Baccouche, Roberta Alteri, Alessio De Cristofaro e Sondès Douggui-Roux con Patrizio Pensabene, Aura Picchione e Angelica Pujia
Roma, 21 giugno 2025
“Ὦ θεά, μητρὸς μεγίστης ἀγαθῆς, πολυώνυμε σεμνή,
ὀυρανόθεν κατάγουσα, χθονία τε καὶ οὐρανία σύ”
(“O dea, grande Madre benefica, veneranda dai molti nomi,
tu che discendi dal cielo, terrestre e celeste insieme.”)
— Inni Orfici, 27.1-2
Là dove l’archeologia tocca il mito e la stratificazione simbolica delle culture, si apre lo spazio per riconoscere non soltanto resti materiali, ma anche il tracciato sotterraneo di un pensiero religioso arcaico che resiste sotto le sovrastrutture patriarcali della civiltà storica. La mostra dedicata alla Magna Mater – ospitata nei luoghi più significativi del Parco archeologico del Colosseo – non è solo un evento espositivo, ma una via di accesso a quel sostrato panmediterraneo che ha custodito, per millenni, l’immagine della Dea primigenia, nella sua forma più alta e terribile: madre, regina, montagna e terra insieme. Non si tratta di una divinità localizzata: Kybele, Cibele, Kubaba, Meter Theon, sono maschere linguistiche di un principio unico e trasversale, sopravvissuto alla frantumazione delle culture neolitiche e alle forme successive della religiosità imperiale. La Dea, come mostrano gli oggetti rituali, i rilievi e le iscrizioni, non veniva semplicemente venerata: veniva temuta, assunta, interiorizzata. Essa rappresentava la continuità tra nascita e morte, fecondità e distruzione, oscillando tra protezione e furia estatica. La sacralità del femminile è qui indagata attraverso sei tappe disposte nel tessuto del Foro e del Palatino, che diventano non semplici contenitori, ma punti focali di un’epifania archeomitica.
Il Tempio della Magna Mater sul Palatino accoglie la memoria dell’evento che ha segnato la romanizzazione ufficiale della Dea: il trasferimento della sua pietra nera, aniconica e potentemente tellurica, da Pessinunte, nel cuore della Frigia, a Roma. Ma tale gesto non fu che una formalizzazione di un sentire molto più profondo. L’immagine lapidea, il suo stesso carattere privo di antropomorfismo, richiama l’origine prefigurativa delle forme divine: la roccia-madre, la montagna-feconda, il seno cosmico della Dea. Non è un caso che durante la fase più critica della Seconda guerra punica, il potere cercò nella Dea arcaica una rigenerazione alle sue origini matrici. La ritualità del trasferimento non è solo diplomatica o religiosa, è psichica. Integrare Cibele significava non solo acquisire un culto, ma rifondare l’intera impalcatura simbolica della città. L’importanza di questa mostra sta anche nel mostrare come la Magna Mater sia figura del continuum tra culture.
La sezione allestita nel Tempio di Romolo, che espone per la prima volta i materiali rinvenuti a Zama Regia, in Tunisia, ne è testimonianza eloquente. La presenza del culto nel Nord Africa romano non è segnale di mera colonizzazione, bensì di una rispondenza simbolica profonda tra le religiosità matriarcali delle coste africane e quelle dell’Anatolia e del Mediterraneo orientale. Le iscrizioni, le immagini, gli oggetti mostrano non una replica, ma un’adesione sentita, un’integrazione organica. In questi contesti provinciali, il culto conserva la sua ambiguità sacra, accogliendo elementi sincretici ma senza perdere il nucleo originario: il tamburo, la danza, la figura del leone, i sacerdoti autoevirati, i galli, depositari di una saggezza iniziatica che travalica il binarismo sessuale. La figura del gallo, nella sua rinuncia alla virilità aggressiva, è un ritorno simbolico all’utero della Dea, alla totalità originaria.
Nella Curia Iulia, sede tradizionalmente legata al potere istituzionale, si apre invece una riflessione sulla capillarità del culto nell’Impero. Da Palmira alla Britannia, da Cartagine a Lione, la Dea si manifesta in molteplici forme, spesso adattate alle culture locali ma sempre riconoscibili nella loro struttura simbolica: seduta tra le fiere, con corona turrita, tamburo e gesto ieratico. Anche nelle metamorfosi locali, la Magna Mater conserva la sua funzione di mediante tra il cosmo e l’umano, tra la disgregazione e l’armonia. Le Uccelliere Farnesiane ospitano la sezione più intensa sul piano misterico, esplorando le radici preclassiche e i tratti sciamanici del culto. Il mito di Attis, giovane pastore che si evirò per amore e divenne simbolo di rinascita vegetativa, è al centro di questo nucleo narrativo. L’autoimmolazione di Attis non è sacrificio fine a sé stesso, ma rito di passaggio, transito tra i mondi. È la simbolizzazione mitica del ciclo vegetale, ma anche della trascendenza del principio maschile nell’unità originaria del femminile sacro.
Questa sezione offre una delle chiavi interpretative più profonde della mostra: il culto della Magna Mater non è solo culto di fecondità o di maternità terrena, ma espressione di un ordine simbolico matristico, dove la ciclicità domina sulla linearità, e la potenza creatrice è legata alla disgregazione e alla rinascita. Nel Ninfeo della Pioggia, il culto è restituito nella sua dimensione sonora e cinetica. I tamburi (tympana), le urla rituali, i suoni ipnotici fanno rivivere, seppur in forma ricostruita, la forza performativa del rito. Qui l’archeologia si apre all’esperienza sensoriale, riconoscendo che il sacro antico non era mai solo oggetto, ma esperienza vissuta, trasformativa, corporale. Non si adorava con lo sguardo, ma con il corpo e con l’intera coscienza. L’ultima sezione, ospitata nel Museo del Foro Romano, testimonia la persistenza della Dea nei secoli successivi. Tra Rinascimento e Seicento, in un’epoca di rinascita antiquaria, la figura della Magna Mater viene riletta in chiave allegorica, talvolta demonizzata, più spesso celata dietro simboli della regalità celeste.
La sua energia, seppur trasformata, sopravvive: nei sogni degli alchimisti, nelle visioni dei filosofi, nei disegni degli eruditi. La mostra si configura come tracciato archeomitico della memoria femminile sacra, una memoria non domestica né addomesticata, ma potente e dinamica, capace di attraversare le culture e di sopravvivere sotto nuove maschere. Il cammino della Magna Mater – da Pessinunte a Roma, da Zama a Lione – è il cammino della Dea in esilio, sempre pronta a ritornare. Non per essere adorata come figura del passato, ma per ricordare che la Terra è viva, sacra e irriducibile, e che ogni cultura, se vuole fiorire, deve tornare al suo grembo. Photocredit Parco Archeologico del Colosseo