Roma, Teatro dell’Opera: “L’Italiana in Algeri” (Cast Alternativo)

Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Stagione 2024-2025
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Angelo Anelli
Musica di Gioachino Rossini
Isabella LAURA VERRECCHIA
Lindoro ANTONIO MANDRILLO
Mustafà ADOLFO CORRADO
Taddeo VINCENZO TAORMINA
Elvira JESSICA RICCI
Zulma MARIA ELENA PEPI
Haly ALEJO ALVAREZ CASTILLO
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Sesto Quatrini
Maestro del Coro Ciro Visco
Regia Maurizio Scaparro
Regia ripresa da Orlando Furioso
Scene Emanuele Luzzati
Costumi Santuzza Calì ripresi da Paola Casillo e Paola Tosti
Luci Vinicio Cheli
Allestimento Teatro Massimo di Palermo
*Dal progetto “Fabbrica” – Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 6 giugno 2025
L’allestimento firmato da Maurizio Scaparro, con le iconiche scenografie di Emanuele Luzzati si configura come una proposta visivamente coerente ma sostanzialmente immobile dal punto di vista drammaturgico. La scena, costruita su una stilizzazione orientaleggiante, appare più come un fondale illustrativo che come un vero spazio d’azione: un contenitore pittorico bidimensionale, capace di affascinare l’occhio ma incapace di modulare spazi relazionali o tensioni narrative. La regia, ripresa da Orlando Furioso, segue fedelmente l’impianto originario, ma rinuncia a ogni articolazione ritmica, gestuale o psicologica fra i personaggi, riducendosi a una sequenza di entrate e uscite secondo logiche più musicali che teatrali. Manca un disegno registico che sfrutti la partitura come motore d’invenzione scenica, e la direzione attoriale è lasciata all’iniziativa individuale degli interpreti. Il tempo scenico, privo di dinamiche interne o mutamenti d’energia, scorre in modo uniforme, senza scarti né contrappunti. Alle criticità strutturali si somma un impianto visivo non sempre coeso: le luci di Vinicio Cheli, affidate a una gestione apparentemente casuale e disordinata, risultano spesso scollegate dall’azione, accentuando la piattezza dell’impianto visivo e compromettendo la leggibilità drammatica dei momenti chiave. I costumi di Santuzza Calì (ripresi da Paola Casillo e Paola Tosti), sebbene ricchi nella fattura e coerenti con l’impronta decorativa generale, mostrano una certa patina polverosa, che li rende più evocativi di un passato teatrale remoto che non realmente funzionali a una scena viva e attuale. In assenza di un autentico motore registico, la responsabilità di sostenere la vitalità dell’azione ricade interamente sulla qualità musicale dell’esecuzione e sull’intelligenza interpretativa del cast, chiamato a rianimare un impianto visivo affascinante ma ormai cristallizzato in una dimensione museale. Alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, Sesto Quatrini ha impresso alla partitura rossiniana una direzione lucida, sorvegliata, priva di autocompiacimenti. Il suo Rossini evita tanto il rischio della caricatura ritmica quanto quello, opposto, della sterilità accademica: ne risulta un tessuto musicale terso, nervoso ma sempre controllato, in cui la mobilità delle agogiche trova senso nella necessità scenica, non in un mero vezzo interpretativo. Le complesse architetture dei concertati e la tessitura dei recitativi accompagnati, spesso insidiosi per equilibrio e coesione, sono state affrontate con una chiarezza strutturale che ha fatto emergere l’intelligenza teatrale del gesto direttoriale, più analitico che empatico. L’orchestra ha risposto con una resa sonora precisa, levigata: archi dal profilo affilato ma non esangue, legni scintillanti e puntuali, una pasta timbrica che, senza mai imporsi, ha saputo sostenere e rifinire l’impianto vocale con discreta efficacia.
Il giovane basso pugliese Adolfo Corrado ha affrontato il ruolo di Mustafà con autorevolezza vocale e una sorprendente maturità interpretativa. La voce è ampia, salda nel registro grave, con un’emissione ben appoggiata e timbro compatto, che ben si adatta all’autorità del Bey. L’agilità — pur non ancora virtuosistica — si dimostra ordinata e ben scolpita, specie nelle sezioni sillabate come Già d’insolito ardore. Laura Verrecchia, Isabella, conferma una salda aderenza alla tradizione rossiniana, sostenuta da una tecnica solida e da una musicalità interiorizzata. La linea di canto si sviluppa con equilibrio: i gravi risultano appoggiati e ben timbrati, gli acuti emessi con naturalezza e senza grandi tensioni, mentre le agilità scorrono con nitore e misura, sempre al servizio del senso drammaturgico. In Cruda sorte, la gestione dei fiati e la qualità del legato contribuiscono a un’esecuzione stilisticamente ineccepibile, mai compiaciuta. La dizione è accurata, il fraseggio consapevole e ben modulato, a favore di un’ Isabella tratteggiata con autorevolezza più che civetteria.  Antonio Mandrillo, tenore di timbro chiaro e luminoso, affronta il ruolo di Lindoro con garbo stilistico e una linea vocale ben rifinita. L’emissione è sempre ben sostenuta sul fiato, l’agilità scorre con naturalezza, e in Languir per una bella spiccano un legato curato e una puntuale articolazione del fraseggio, culminante in puntature acute affrontate con disinvoltura. Nella prima parte della recita traspare una certa emozione, con qualche lieve incertezza, poi superata da una progressiva sicurezza interpretativa. Permane una certa disomogeneità volumetrica nel registro centrale, che negli insiemi tende a smarrirsi, ma la cura ritmica e l’intenzione musicale rendono nel complesso la sua prova tra le più eleganti e stilisticamente centrate. Vincenzo Taormina delinea un Taddeo equilibrato e musicalmente consapevole, sostenuto da una voce ancora solida e da un fraseggio articolato, con sillabato e parlato ritmico gestiti secondo la miglior tradizione rossiniana. Jessica Ricci, nei panni di Elvira, convince per il timbro chiaro, l’emissione stabile e un fraseggio curato, riuscendo a valorizzare con eleganza vocale un ruolo secondario. Meno misurata, invece, appare la sua presenza scenica, complice una regia che la agita eccessivamente, togliendole naturalezza. Maria Elena Pepi offre una Zulma ben rifinita, con buona linea di canto, dizione nitida e senso dell’ensemble. Alejo Alvarez Castillo, giovane Haly, mostra proiezione efficace e basi tecniche sicure, pur con una timbrica ancora in fase di maturazione. Di rilievo il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, diretto da Ciro Visco, per compattezza, articolazione e precisione ritmica. Un insieme vocale coeso e stilisticamente centrato, che restituisce la scrittura rossiniana con rigore tecnico e gusto teatrale, sebbene penalizzato da una regia che li vede in scena un po’ disordinati, privi di caratterizzazione e di un reale senso scenico. Il pubblico ha applaudito con misura e intelligenza. Qualcuno, però, ha preferito scappare prima dei saluti finali: forse il richiamo di un calice al tramonto era più forte del rispetto per chi era in scena. In fondo, l’eleganza non si compra con lo spritz. Photocredit Fabrizio SansoniTeatro dell’OperadiRoma