Roma, Teatro Torlonia
LA LENTE OSCURA
dai testi di Anna Maria Ortese
con Francesca Piccolo e Federico Gariglio
regia di Lucia Rocco
musiche di Ran Bagno
video di Alessandro Papa
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Roma, 03 giugno 2025
V’è nel teatro, quando osa affacciarsi sul terreno sdrucciolevole della letteratura non teatrale, un duplice imperativo: rispettare la materia che si maneggia e insieme trasfigurarla, come si fa con le cose amate. La Lente Scura, allestita al Teatro Torlonia con la regia di Lucia Rocco, riesce in questo doppio movimento: non trasforma Ortese in altro da sé, ma ne restituisce, incarnandola, la voce errante, la visione turbata, lo sguardo ferito e profetico. Anna Maria Ortese non scriveva per piacere al lettore, né per edificare lo spirito. Scriveva per necessità, come si scrive per respirare. La sua “lente scura” — titolo della raccolta da cui lo spettacolo prende forma — è l’occhio deformante e salvifico con cui attraversava il mondo: non filtro estetico, ma disvelamento critico; non stile, ma ferita. Lucia Rocco ne fa l’elemento guida di una regia rarefatta, densa di chiaroscuri, che non illumina per rivelare, ma vela per suggerire. A incarnare questa lente — vetro opaco di malinconia e protesta — sono Francesca Piccolo e Federico Guariglia, discreti e rigorosi traghettatori di parola. Non interpretano, non si sostituiscono alla scrittrice: l’accompagnano, con passo rispettoso, dentro un paesaggio fatto di rovine urbane e cieli superstiziosi. La Roma degli anni ’50 non è mai sfondo, ma carne dolente e muta, organismo in cui si annida l’ambiguità del vivere. È una città abbagliante che produce ombre spesse, come le chiama la regista. Ed è proprio in quelle ombre che si aggira la Ortese, nomade per destino più che per scelta, guidata — scrisse — da “certi segni misteriosi, come paletti affioranti dalla laguna”. Lo spettacolo è percorso da questa tensione: l’impossibilità di abitare davvero il mondo, il bisogno bruciante di radicarsi, e l’inesorabile condanna allo sradicamento.
La parola ortesiana, nel fluire delle voci e della scena, si fa scrittura sbandata e ansiosa, spezzata, esitante, come la definì lei stessa. Non c’è linearità, non c’è percorso, non c’è centro. C’è un respiro smarrito, una continua deviazione. E in questa deviazione si annida la bellezza più inquieta. I suoni di Ran Bagno non accompagnano, ma sussurrano da lontano: sono echi, risonanze, memorie sonore. Le immagini video di Alessandro Papa non mostrano, evocano: frammenti di un mondo che si intravede più che si vede. Tutto nello spettacolo sembra costruito per farci camminare a fianco della scrittrice, come un’ombra, come un’eco che si crede corpo. Nel testo teatrale — come nella raccolta originaria — si ritrovano reportage da città e paesi attraversati dall’autrice tra il 1939 e il 1964: Roma, Genova, Napoli, la Russia sovietica, la Londra degli esili e dei gatti randagi. Nessun ordine cronologico, nessuna coerenza tematica: solo lo zigzagare di un’anima che cerca invano una dimora. Il teatro restituisce con misura questa geometria inquieta, dove la struttura del racconto è franta, e il senso si forma nella fenditura.
Ortese non viaggiava per conoscere, ma per sopravvivere. Il viaggio non era esperienza, ma necessità emotiva, quasi nevrotica. Una stanza da affittare diventava pretesto per l’esilio; un biglietto ferroviario Milano-Napoli-La Spezia un cortocircuito di logica e memoria. La scena riflette questa instabilità: anche lo spettatore è chiamato a perdersi, a non riconoscere più l’asse del mondo, a interrogare ciò che fino a poco prima pareva solido. Si staglia così, nel cuore dello spettacolo, la grande ossessione ortesiana: il desiderio di patria. Ma non una patria geografica, politica, culturale. Piuttosto una patria interiore, fatta di “Occhi – Occhi – Occhi e Voci dolci, umane, chiarissime”. La patria che si cerca nella voce spezzata di una ragazza pugliese, nelle mani di un mendicante a Parigi, nella furia dolente dei figli dei briganti a Montelepre. Ed è questa patria — mai trovata, eternamente inseguita — a diventare l’unico possibile approdo. Il teatro, qui, si fa appunto luogo di passaggio, non di approdo.
Non promette verità, ma ne mostra la mancanza. E in questo si avvicina profondamente alla Ortese, che scriveva non per dire il vero, ma per indicare il vuoto dove il vero avrebbe potuto essere. Merito alla regista per aver costruito una drammaturgia che rifugge ogni enfasi, ogni estetismo, ogni pedagogia. La parola è lasciata nella sua nudità incerta, nel suo silenzio carico di senso. Il ritmo è lento, contemplativo, spigoloso come un paesaggio interiore. La scena è abitata dal vuoto più che dalla presenza, come la pagina ortesiana è abitata dall’invisibile. Ne esce un’esperienza teatrale che non consola, non rassicura, ma risveglia. Un teatro che si fa letteratura vissuta, in carne e voce, e che — come la prosa ortesiana — preferisce trasfigurare la realtà in quadro visionario, fatto di metafore, ossimori, e marginalità.
Un teatro che accetta di non possedere risposte, e che proprio per questo — nel nostro tempo rumoroso e saturo — appare più che mai necessario. La conclusione del ciclo Racconti Romani trova dunque nella Lente Scura il suo epilogo più alto e doloroso. Non un trionfo, ma un congedo. Non un acuto, ma un sussurro. Come l’utopia ortesiana che resta, sola, a vegliare “sui paesi deserti e campagne mute, mentre i convogli del tempo continuano a inseguirsi”. Teatro e scrittura si fondono qui nella forma più nobile della testimonianza: quella che sa, in fondo, che il mondo non si cambia con le verità, ma con gli sguardi che osano nominarlo nella sua insopportabile nudità.
Roma, Teatro Torlonia: “La lente oscura”
