Roma, VIVE
CITTA’ APERTA 2025
ideata da Edith Gabrielli
con la cura di Roberto Koch e Alessandra Mauro
Roma, 25 giugno 2025
È nel silenzio solenne del Vittoriano, più ancora che nelle sue celebrazioni, che la città eterna si rivela per quella che è: un organismo vivo, mai fermo, ora contraddittorio, ora ieratico, ma sempre irriducibile a una sola immagine. La mostra Città aperta 2025, allestita nella Sala Zanardelli e ideata da Edith Gabrielli con la cura acuta di Roberto Koch e Alessandra Mauro, si muove precisamente in questa direzione: restituire a Roma la sua pluralità di sguardi senza mai tradirne la sostanza. Non un’esposizione, dunque, ma una riflessione fotografica sul tempo, sul rito e sullo spazio urbano come palinsesto. I tre autori convocati – Diana Bagnoli, Alex Majoli e Paolo Pellegrin – non si limitano a registrare il Giubileo del 2025 come evento, ma ne scandagliano le crepe, i riverberi, le tensioni interiori. È la Roma che celebra e piange, che si stringe nei riti funebri di un Papa e si apre, poche settimane dopo, alla speranza solenne del nuovo pontificato. E se è vero, come sosteneva un grande antiquario dell’immagine, che la fotografia non è documento ma visione, allora queste duecento fotografie tracciano la mappa topografica di uno stato d’animo collettivo. Nel lavoro di Diana Bagnoli c’è la Roma dell’attesa, quella che pulsa nei canti delle comunità filippine in periferia, nei gesti lenti delle madri africane sedute ai giardini di Torpignattara, nelle liturgie improvvisate negli scantinati trasformati in cappelle. Il colore che adopera – mai decorativo, mai urlato – è materia simbolica, filtro devoto attraverso cui guardare l’invisibile. Non c’è folclore né retorica: i suoi pellegrini, anche i più anonimi, hanno la compostezza tragica di chi sa che il viaggio è un atto di fede prima ancora che di movimento. Alex Majoli, invece, costruisce Roma come scena. Ogni scatto è un proscenio, ogni composizione un’azione tragica. La luce che usa – simile a quella dei fari teatrali – isola i soggetti e li rende archetipi. C’è un pathos borghese, quasi borromaico, nei suoi ritratti della folla; eppure mai distacco, mai compiacimento. In Majoli si sente la tradizione della pittura barocca, quel modo tutto romano di fare del quotidiano un enigma teologico. Anche quando la sua macchina si posa su una suora che mangia un gelato o un mendicante sotto un manifesto del Papa defunto, ciò che traspare non è la cronaca, ma la vertigine del tempo che ritorna.
Il terzo sguardo, quello di Paolo Pellegrin, è il più mobile, il più instabile e, forse, il più intimo. Roma, nelle sue immagini, non è solo luogo: è memoria, detrito, eco. Pellegrin entra nei margini e ne fa centri, attraversa il fiume e i suoi argini con uno sguardo da rabdomante. Le sue periferie – Ostiense, Primavalle, l’Appio – si piegano e si dilatano fino a diventare paesaggio dell’anima. Si direbbe che la sua fotografia non voglia catturare, ma lasciare accadere. Come se il fotogramma fosse già passato attraverso l’occhio, il cuore e infine la mano. Il percorso espositivo, distribuito su due piani, evita ogni trionfalismo didascalico. Le immagini non illustrano, evocano. Non seguono un ordine lineare, ma compongono un contrappunto visivo in cui ogni autore dialoga con gli altri, contraddicendoli, confermandoli, superandoli. E qui la curatela è chirurgica: la mano invisibile che guida senza mai imporsi. Le tre videointerviste firmate da Paolo Freschi, discrete e nitide, completano l’apparato espositivo come una forma di controcanto audiovisivo. Ma il colpo di grazia – e uso l’espressione in senso salvifico – è dato dal testo inedito di Valerio Magrelli che scorre, lento e oracolare, su un grande ledwall. Non si tratta di un semplice accompagnamento poetico, ma di un controtesto che sposta la lettura, suggerendo sottotesti, rimandi e chiose.
Magrelli non spiega, scava: ed è in questo gesto, antico e insieme modernissimo, che la mostra trova la sua cifra più autentica. Infine, quasi a voler sigillare questa sinfonia di sguardi, il giardino di Palazzo Venezia si offre come estensione all’aperto del progetto. I totem fotografici qui disposti non sono solo apparati didattici ma forme architettoniche di presenza: monoliti urbani che restituiscono alla città la propria immagine, come specchi opachi, mai concilianti. Città aperta 2025 non è una mostra sul Giubileo, né su Roma. È una mostra sull’atto del guardare, sul gesto del riconoscere, sull’urgenza del comprendere. I tre fotografi convocati non offrono soluzioni né interpretazioni rassicuranti. Offrono testimonianze, nel senso più profondo del termine: essere testimoni è, in fondo, un atto di responsabilità. E il VIVE, con questa iniziativa, dimostra ancora una volta di non volersi limitare al ruolo di custode della memoria, ma di voler esercitare una funzione critica nel presente. Come direbbe qualcuno, in questa mostra non c’è nulla di più contemporaneo dell’eternità.
Roma, VIVE: “Citta’ Aperta 2025”
