Roma, Caracalla Festival 2025
Basilica di Massenzio e Costantino
LA RESURREZIONE
Oratorio in due parti
Musica di Georg Friedrich Händel
Direttore George Petrou
Regia Ilaria Lanzino
Scene Dirk Becker
Costumi Annette Braun
Luci Marco Filibeck
Personaggi e interpreti:
Angelo SARA BLANCH
Maddalena ANA MARIA LABIN
Cleofe TERESA IERVOLINO
San Giovanni CHARLES WORKMAN
Lucifero GIORGIO CAODURO
ORCHESTRA NAZIONALE BAROCCA DEI CONSERVATORI
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma
Roma, 01 luglio 2025
L’apertura del Caracalla Festival 2025 con La Resurrezione di Händel, nella suggestiva cornice della Basilica di Massenzio, ha offerto uno spettacolo intenso, capace di unire rigore storico e sguardo contemporaneo. A guidare l’Orchestra Nazionale Barocca dei Conservatori, George Petrou ha costruito una concertazione asciutta, consapevole e vibrante, sorretta da una prassi esecutiva storicamente informata ma lontana da ogni rigidità accademica. Il gesto è rimasto sempre musicale, attento al respiro del fraseggio, alla trasparenza delle tessiture, alla tensione affettiva che si annida tra i silenzi e le cesure. I recitativi accompagnati sono stati trattati come veri spazi drammatici, mentre le arie da capo hanno evitato ogni eccesso virtuosistico, scegliendo invece una via riflessiva, interiorizzata, in cui l’ornamento emerge come intensificazione e non come esibizione. Il cast vocale si è rivelato omogeneo, stilisticamente compatto e tecnicamente affidabile. Sara Blanch, nel ruolo dell’Angelo, ha illuminato la scena con una vocalità limpida, luminosa, di agile duttilità: il suo canto, mai forzato, ha conferito al personaggio una serenità pensante, spirituale, estranea a ogni trionfalismo. Ana Maria Labin, interprete di Maria Maddalena, ha optato per un registro più dolente e introspettivo, segnato da un fraseggio controllato e da una costante attenzione alla dimensione affettiva del suono: la sua “Ferma l’ali” ha rappresentato uno dei vertici espressivi della serata, per rigore formale e intensità emotiva. Teresa Iervolino, nel ruolo di Maria di Cleofe, ha offerto una prova di grande intensità vocale e musicale, unendo autorevolezza timbrica e rigore espressivo. L’aria “Piangete, sì piangete” è emersa come uno dei vertici della serata, sospesa tra dolore e contemplazione, esempio compiuto di come tecnica e profondità possano fondersi in una vera esperienza emotiva.
Charles Workman ha delineato un San Giovanni sobrio, meditativo, fondato su chiarezza prosodica e rigore stilistico, perfettamente in linea con la sobrietà perseguita da Petrou. A spiccare con grande forza teatrale è stato Giorgio Caoduro nel ruolo di Lucifero: voce solida, timbro autorevole, proiezione sicura, intelligenza drammaturgica. Il celebre “Col sasso e col ferro” è diventato, nella sua lettura, un autentico spazio di conflitto interiore, tra orgoglio e disillusione, forza e disgregazione. La regia di Ilaria Lanzino ha scelto di non illustrare la partitura, ma di interrogarla, trasformandola in un teatro della soglia, dove il sacro si presenta non come dogma, ma come vuoto attivo, come interrogazione. La scena concepita da Dirk Becker è organizzata come un paesaggio mentale e affettivo, disseminato di oggetti-sintomo – letti disfatti, crocifissi, culle, sedie ribaltate – che più che narrare alludono, più che costruire racconto evocano assenza.
La partitura visiva procede per quadri frammentari, montaggi non lineari, immagini-soglia che si sedimentano nella memoria dello spettatore come icone perturbanti. I riferimenti cinematografici – da von Trier a Moretti, da Wang Xiaoshuai a van Groeningen – non sono citazioni decorative, ma matrici profonde che modellano l’intera struttura visiva. E tuttavia, proprio in questa costruzione densa e consapevole, si aprono alcune fragilità. La regia, pur sorretta da un impianto teorico coerente, inciampa talvolta in soluzioni sceniche scontate, in gesti e pose dal sapore illustrativo o provocatorio. Alcuni momenti sembrano ammiccare allo scandalo più che alla riflessione, come se si volesse forzare un impatto visivo laddove già la musica e l’architettura bastavano a sostenere il peso drammaturgico. È questa la pecca più provinciale di una regia altrimenti audace: la tentazione di banalizzare ciò che, per sua natura, avrebbe potuto restare aperto, enigmatico, perturbante. Laddove si affaccia il desiderio di firmare la messinscena con eccessi o facili provocazioni, si perde la precisione dei passaggi più riusciti.
I costumi disegnati da Annette Braun rinunciano a qualsiasi coerenza stilistica per abbracciare una varietà dissonante e volutamente destabilizzante. Più che costruire un codice, proliferano maschere e segni eterogenei, in un continuo slittamento tra il sacro e il grottesco, l’archetipo e il travestimento. Talvolta generano cortocircuiti visivi interessanti, altrove scivolano nel decorativo fine a se stesso. Non una grammatica della fragilità, ma una giustapposizione di citazioni e suggestioni che raramente trovano una sintesi simbolica compiuta. Il disegno luci di Marco Filibeck, invece, si rivela tra gli elementi più riusciti dell’allestimento: tagli radenti, zone d’ombra, fenditure luminose modulano lo spazio come un organismo emotivo, scolpiscono i volumi architettonici della Basilica, amplificano la tensione visiva della scena. La Basilica di Massenzio non è solo uno sfondo pittoresco da cartolina archeologica, ma un vero attore silenzioso dello spettacolo. Con la sua monumentalità spezzata e la sua eco cavernosa, sembra ricordare a tutti – pubblico compreso – che a Roma anche le rovine hanno autorità.
Più che sacro, qui tutto suona sospeso: tra liturgia e cantiere, tra storia e smarrimento. E così la musica, abbandonata ogni velleità spettacolare, si adagia nelle pieghe del tempo e delle pietre, facendo dell’ascolto un’esperienza quasi fisica, da vivere più che da contemplare. Il barocco, spogliato di ogni compiacimento, diventa interrogazione muta, gesto che non chiude ma apre. Eppure, proprio nel finale, qualche crepa si è allargata. Non pochi, ma numerosi e inequivocabili, i boati di disapprovazione si sono levati dalla platea all’indirizzo della regista, che ha salutato con spavalda nonchalance, vestita di viola e avanzando verso il pubblico con un certo vezzo d’anca. Un gesto a metà tra l’autocompiacimento e la performance, forse superfluo, certamente fuori tono rispetto alla misura – e all’importanza – del lavoro che lei stessa aveva costruito con intelligenza e rigore. Ma anche questo è teatro: luogo dell’esposizione, del rischio, dell’ambivalenza. E se alcune scelte registiche risultano discutibili, ciò che resta è la coerenza di un impianto e la determinazione di una visione. Una regia che può dividere, infastidire, forse eccedere – ma che non cerca mai di compiacere. E questo, oggi, è già moltissimo. Photocredit Fabrizio Sansoni Opera di Roma
Roma, Caracalla Festival 2025: “La Resurrezione” di Georg Friedrich Händel
