Roma, Caracalla Festival 2025: “West Side Story”

Roma, Caracalla Festival 2025
WEST SIDE STORY
basato su un’idea di Jerome Robbins
Libretto di Arthur Laurents
Musica di Leonard Bernstein
Liriche di Stephen Sondheim
Tony MAREK ZUROWSKI

Maria SOFIA CASELLI
Anita NATASCIA FONZETTI
Bernardo SERGIO GIACOMELLI
Riff  SAM BROWN
Qui il resto del cast
Coreografie Sasha Riva e Simone Repele
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Alessandro Carletti
Regia Damiano Michieletto
Direttore Michele Mariotti
Orchestra e Corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma

Roma, 05 luglio 2025
Il nuovo allestimento di West Side Story presentato dal Teatro dell’Opera di Roma alle Terme di Caracalla, con la regia di Damiano Michieletto e la direzione musicale di Michele Mariotti, si inserisce con decisione nel filone delle riletture radicali. La regia di Michieletto intende liberare West Side Story da ogni tentazione nostalgica, trasferendola in un presente segnato da disillusione, fratture sociali e sorveglianza diffusa. La scena – una piscina in disuso, crepata e invasa da detriti – delinea un paesaggio post-urbano, desolato ma non privo di riferimenti simbolici. Al centro, la fiaccola spezzata della Statua della Libertà suggerisce una visione corrosa dell’ideale americano, evocato nella sua rovina più che nella sua promessa. L’allestimento, così concepito, stabilisce un suggestivo parallelismo con le stesse Terme di Caracalla, nate come complesso termale monumentale, ricco di vasche e piscine: una piscina scenica dentro le rovine di piscine reali, metafora di un doppio collasso – storico e ideologico – che interroga lo spettatore su ciò che resta, oggi, dei miti fondativi della collettività. Siamo lontani dalla New York realistica dell’originale: Jets e Sharks si muovono in uno spazio allegorico, sospeso tra degrado e astrazione. Questa scelta, pur coerente nella sua radicalità, si scontra in alcuni momenti con l’impianto lirico dell’opera, ancorato a una dimensione relazionale. Il linguaggio musicale di Bernstein e il testo di Sondheim esprimono tensione emotiva e desiderio: elementi che, a tratti, faticano a trovare corrispondenza nell’estetica spoglia della regia. Non sempre questa distanza si traduce in tensione drammaturgica: nei passaggi più intimi, la rarefazione scenica rischia di ridurre la parola a superficie, privandola di peso. Michele Mariotti, dal podio, affronta la partitura di Bernstein con una visione lucida, strutturalmente solida e musicalmente ispirata, restituendone appieno la ricchezza timbrica e la varietà stilistica. Jazz, sinfonismo novecentesco, idiomi latini, Broadway song e complesse architetture poliritmiche scorrono in un flusso coerente, articolato con rigore analitico e naturalezza interpretativa. L’orchestra risponde con grande reattività a ogni cambiamento di clima espressivo, restituendo la stratificazione del tessuto sonoro con precisione e duttilità. La direzione evita ogni forma di compiacimento o retorica, rifiutando tanto l’enfasi cinematografica quanto il neutralismo sinfonico. Ogni sezione – dagli ottoni alle percussioni, dai legni alla sezione ritmica – è valorizzata come voce autonoma, funzionale alla drammaturgia interna della partitura. Il fraseggio orchestrale è cesellato, le dinamiche finemente sfumate, il bilanciamento timbrico sempre attento alla costruzione narrativa del suono. Ma il dato più rilevante è forse la sua relazione con la scena: Mariotti mantiene un contatto costante e partecipato con i cantanti, sostenendoli con una direzione flessibile e generosa, capace di adattarsi al gesto vocale e alla parola drammatica. Marek Zurowski interpreta Tony con voce ampia, ben proiettata, e una linea lirica morbida, non sempre pienamente controllata ma capace di sostenere l’eloquenza emotiva del personaggio. La sua presenza scenica è marcata da una fisicità evidente, che non cerca di nascondere ma anzi espone con naturalezza, anche quando risulta talvolta più impattante che realmente calibrata rispetto alla fragile idealità di Tony. La lettura resta ancorata a un modello narrativo tradizionale – l’innocente travolto dalla passione e dal rimorso – che la regia non si cura di mettere in crisi. L’interpretazione è professionale, sincera, ma priva di ambiguità o torsioni interiori. Sofia Caselli presta a Maria un timbro limpido, una tecnica solida e un’intenzione interpretativa calibrata. Il suo fraseggio è corretto, l’intonazione precisa, il registro acuto ben gestito. Ma anche qui il personaggio rimane imprigionato in un ruolo simbolico: figura eterea e pacificatrice, portatrice di un’innocenza che la scena, peraltro, rende impossibile. Il conflitto tra testo e ambientazione è irrisolto: la Maria cantata non corrisponde mai davvero a quella che si vede. Molto più centrata, invece, l’interpretazione di Natascia Fonzetti, che nel ruolo di Anita riesce a spezzare la cornice archetipica. La sua vocalità è piena, potente, il ritmo è impeccabile, l’espressività misurata ma penetrante. In America il suo corpo e la sua voce costruiscono un personaggio consapevole, ironico e lucido, perfettamente integrato nel linguaggio scenico. Sergio Giacomelli (Bernardo) e Sam Brown (Riff) offrono prove solide: il primo con voce brunita e asciutta, il secondo con energia ritmica e controllo scenico. Per tutti gli interpreti si percepisce una maggiore disinvoltura nelle parti cantate, mentre la componente recitativa appare in alcuni casi meno rifinita e omogenea nel tono e nell’intenzione. In linea il resto del cast. Le coreografie di Sasha Riva e Simone Repele abbandonano del tutto la grammatica di Robbins, elaborando un linguaggio nervoso, frammentato, fatto di strattoni, rigidità, collisioni. Il corpo non è più veicolo di liberazione, ma dispositivo di tensione e contenimento. Una scelta coerente con la visione registica, ma che accentua la sensazione di spaesamento emotivo. Questo West Side Story non è certo un’operazione nostalgica, né tantomeno un esercizio di calligrafia teatrale. È, piuttosto, un tentativo – per molti versi lodevole – di reiniettare senso politico e urgenza estetica in un’opera iconica, anche a costo di esasperarne le frizioni. Che il risultato sia irrisolto, talvolta incoerente, non ne inficia la necessità. L’opera di Michieletto ha almeno il merito di non rifugiarsi nel comfort della filologia né nella grazia inoffensiva del citazionismo. I personaggi restano prigionieri dei loro archetipi come cavie in un esperimento semiotico, ma l’apparato complessivo – musicale, visivo, coreografico – insiste nel porre domande, anche quando pare ignorare le risposte. E se la fiaccola della libertà viene rappresentata a pezzi, con zelo quasi didattico, forse è proprio perché si è ormai smesso di credere che possa scaldare. Al massimo, illumina – brevemente – il bordo delle crepe.  Photocredit: Fabrizio Sansoni / Teatro dell’Opera di Roma