Roma, Palazzo Bonaparte
CAROLE A. FEUERMAN. LA VOCE DEL CORPO
organizzata da Arthemisia e Feuerman Sculpture Foundation, curatela di Demetrio Paparoni
Roma, 04 luglio 2025
“La voce del corpo” si manifesta a Roma in forma scultorea, levigata, iperrealista, e lo fa invadendo senza esitazioni i saloni monumentali di Palazzo Bonaparte, affacciati sulla scenografia imperiale di Piazza Venezia. Qui, dal 4 luglio al 21 settembre 2025, prende vita la prima grande retrospettiva europea di Carole A. Feuerman, artista newyorkese che fin dagli anni Settanta ha plasmato la materia del corpo femminile elevandola a icona contemporanea, silenziosa e onnipresente. Oltre cinquanta opere – prodotte e organizzate da Arthemisia insieme alla Feuerman Sculpture Foundation, con la curatela di Demetrio Paparoni – tracciano un itinerario che non è solo cronologico, ma simbolico, emozionale, epidermico. Feuerman non propone figure: impone presenze. Le sue sculture, scolpite in resina, bronzo, vernice acrilica, non sono oggetti da osservare ma soglie da attraversare. Corpi che non parlano, ma comunicano con la loro immobilità e la loro perfezione lucente una tensione che non si può ignorare. Il corpo, per l’artista, non è strumento narrativo né strumento erotico: è forma assoluta, è paesaggio della mente. Le nuotatrici adolescenti, le donne sospese in pose raccolte, le figure atletiche e mute, non partecipano a una fenomenologia dell’identità, ma a una liturgia della presenza. E nel farlo, sovvertono ogni aspettativa spettatoriale: nulla qui è seducente nel senso canonico del termine. Ogni scultura, pur esibendo una precisione quasi chirurgica nella resa di gocce d’acqua, pieghe della pelle, capillari sottopelle e costumi aderenti, mantiene una distanza irreparabile. Non interpella, non interroga, non racconta: resiste. Nel contesto romano, tale resistenza si misura con lo spazio. Il barocco di Palazzo Bonaparte, solitamente complice di ogni enfasi, qui sembra ritrarsi. Le sue pareti dorate, le cornici storiche, le linee sinuose dei soffitti si mettono a disposizione di una nuova mitologia plastica. Lo spazio storico viene invaso da figure contemporanee che sembrano non solo abitare l’architettura ma colonizzarne lo sguardo. Il contrasto non è mai retorico, non c’è volontà di contrasto tematico: piuttosto, una sinergia paradossale, una complicità tattile.
Il tempo sembra sospendersi: le sculture non stanno nel presente, ma in una sorta di bolla semiotica, dove ogni dettaglio – dalla cuffia da piscina alle palpebre socchiuse – si carica di un potere immobile e profondo. Feuerman ha vissuto la New York degli anni Settanta e Ottanta con la stessa lucidità con cui ora affronta il presente. Non ha ceduto alla facile ironia dell’iperrealismo americano più cinico, alla Duane Hanson, né alla nevrosi del corpo urbano che affiora nelle vetrate svuotate di Richard Estes. Al contrario, il suo lavoro è una costruzione mitica che rifiuta il tempo lineare e si inscrive in una dimensione atemporale. Le sue donne non sono americane, né contemporanee. Non sono erotiche, né simboliche. Sono lì, inquiete, brillanti, intoccabili. E come tutti gli idoli, esigono distanza. È questa distanza che crea l’effetto perturbante: vorremmo avvicinarci, ma non possiamo; vorremmo toccare, ma ci è negato. Il desiderio che suscitano non è sessuale, ma sacrale. Il titolo della mostra – La voce del corpo – tradisce questo scarto: il corpo, infatti, non ha una voce. O meglio: non parla nel senso linguistico del termine. Ma la sua presenza è tale da costringerci a un ascolto più profondo. Il corpo è qui ciò che precede il linguaggio, ciò che lo fonda. Non è un soggetto che si esprime, ma un oggetto che si impone. È figura e superficie, apparenza e assenza. E in questo senso, l’acqua – pur invisibile, suggerita solo dalle gocce perfettamente scolpite – si trasforma in elemento concettuale. Le sculture sono bagnate, ma in uno spazio asciutto.
Il rumore del liquido è assente, ma la sua aura aleggia ovunque. È l’acqua a creare l’effetto di sospensione, a congelare il tempo in una quiete carica di tensione. In un’epoca che ha sterilizzato la fisicità e digitalizzato l’erotismo, Feuerman restituisce al corpo un potere primitivo. Non quello della sessualità, ma quello della persistenza. Questi corpi non mutano, non si consumano, non invecchiano. Sono eterni, invulnerabili, olimpici. Eppure non c’è trionfo: la loro perfezione non è vittoria, ma condanna. In loro vive una nostalgia della carne viva, una malinconia dell’essere umano. Feuerman scolpisce figure che sembrano voler ricordare qualcosa che abbiamo dimenticato. Qualcosa che riguarda noi, il nostro stesso modo di esistere, di stare nello spazio, di abitare il mondo.
Chi attraversa le sale di Palazzo Bonaparte non visita una mostra, ma entra in una macchina della visione. Una macchina che non mostra, ma rivela. Non insegna, ma smaschera. Il corpo, nella sua perfezione mimetica, non è mai stato così irriconoscibile. E forse è proprio questa la vera voce che l’artista ci costringe ad ascoltare: quella di un corpo che non può più essere contenuto né definito, che sfugge alle categorie del genere, dell’età, del tempo, della funzione, per imporsi come pura immagine. Non riproduzione della realtà, ma icona che eccede, che abbaglia, che disarma. Carole A. Feuerman non plasma statue: impone idoli. Non racconta storie: costruisce presenze. Non ci chiede di capire: ci costringe a ricordare. A ricordare un corpo che forse non è mai esistito, ma che da sempre ci abita.
Roma, Palazzo Bonaparte: “Carole A. Feuerman. La voce del Corpo”
