Roma, Teatro Romano di Ostia Antica
IFIGENIA
tragedia di Euripide
adattamento Silvia Zarco
regia Eva Romero
con María Garralón (Hécuba), Juanjo Artero (Agamennone), Beli Cienfuegos (Clitennestra) Laura Moreira (Ifigenia), Nuria Cuadrado (Polissena), Alberto Barahona (Ulisse) Néstor Rubio (Águilas), Rubén Lanchazo (Poliméstor, vecchio), Maite Vallecillo (Corifeo, Schiavo di Troia)
scene Elisa Sanz
costumi Elisa Sanz e Igone Teso
composizione musicale Isabel Romero
disegno luci Rubén Camacho
foto Jorge Armestar
produzione Festival di Merida e Maribel Mesón produzione e distribuzione teatrale
Ostia Antica, 25 luglio 2025
“Le parole delle donne uccise pesano anche quando non vengono pronunciate.” (Marcela Lagarde, antropologa e attivista, in Los cautiverios de las mujeres, 1990) In questa frase si racchiude la vibrazione profonda di Ifigenia, l’opera riscritta da Silvia Zarco e diretta da Eva Romero, andata in scena al Teatro Romano di Ostia Antica.
La tragedia, frutto di una coproduzione tra il Festival Internacional de Teatro Clásico de Mérida e il Teatro di Roma, con la produzione teatrale curata da Maribel Mesón, non propone una mera riscrittura dei testi di Euripide (Ifigenia in Aulide, Ecuba) ed Eschilo (Agamennone), ma una ricomposizione drammaturgica potente, che colloca al centro due figure sacrificate e dimenticate: Ifigenia e Polissena. Due corpi offerti, due bocche mute, due volti che ritornano per parlare oggi, tra le pietre di Ostia. Silvia Zarco — filologa classica, docente e drammaturga — fonde i tre testi tragici in un’unica struttura narrativa che mette in dialogo le vittime: Ifigenia, la prima offerta per la gloria greca; Polissena, l’ultima offerta per l’onore degli achei. Due ragazze, due figlie, due giovani vite trasformate in simboli di una logica di potere che attraversa i secoli. “La memoria non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda”, scriveva Paul Ricoeur in La mémoire, l’histoire, l’oubli (2000).
Ifigenia non rievoca il passato per nostalgia, ma lo interroga per rivelare quanto quel sacrificio sia ancora attuale. La regia di Eva Romero — direttrice della Escuela Municipal de Teatro de Guareña, attivista femminista — non cede alla tentazione dell’estetizzazione. Anzi. Sceglie la spoliazione come linguaggio scenico, lasciando che siano i corpi e le voci a costruire il dramma. Le scene di Elisa Sanz sono essenziali: grandi rocce, disposte come presenze ancestrali, definiscono una spiaggia rituale senza tempo. I costumi, curati da Sanz insieme a Igone Teso, si muovono in una scala cromatica neutra, privi di ogni folclore. Le luci di Rubén Camacho lavorano per incisioni, scolpendo lo spazio come un bassorilievo tragico. La partitura sonora di Isabel Romero — minimale, atmosferica — accompagna il testo con un respiro di attesa e morte. Ma è la parola il vero centro incandescente di questo spettacolo. Il testo di Zarco è tagliente, controllato, poetico senza essere mai decorativo. Le frasi non sono declamate, ma incise. Ogni battuta pesa. Ogni silenzio è carico di significato. La lingua, pur fedele alla tragedia classica, si apre a registri contemporanei che parlano di oggi: della violenza di genere, dell’impunità, della trasmissione del trauma.
Non si tratta di attualizzazione forzata, ma di necessità tragica. Come scriveva Simone Weil in La fonte greca (1953), “la tragedia greca è la prima forma d’arte che mostra il male in tutta la sua realtà, senza tentare di giustificarlo”. È esattamente ciò che accade qui. Il cast si distingue per rigore e intensità. Laura Moreira è un’ Ifigenia dolorosa ma non supina: nei suoi gesti trattenuti, nel timbro controllato della voce, c’è la consapevolezza di una morte che non redime, ma denuncia. Nuria Cuadrado dà voce a una Polissena vibrante, che non chiede pietà ma giustizia. Il loro dialogo, pur provenendo da tragedie distinte, si fonde in un’unica traiettoria: sono figlie che rifiutano di morire nel silenzio. María Garralón è una Hécuba maestosa, mater dolorosa che non implora ma inchioda. Il suo dolore è scolpito nella postura e nello sguardo. Beli Cienfuegos, nei panni di Clitemnestra, è una figura di colpa lucida e determinazione ferrea. Juanjo Artero, nel ruolo di Agamennone, costruisce un personaggio credibile e trattenuto, attraversato dal dissidio interno.
Alberto Barahona è un Ulisse infido e politico, voce di un potere che calcola. Néstor Rubio interpreta un Achille energico e retto, mentre Rubén Lanchazo affronta con misura i doppi ruoli di Poliméstor e del Vecchio. Maite Vallecillo, intensa come Corifea e come schiava troiana, è filo narrativo e coscienza collettiva. Il ritmo drammaturgico è scandito con intelligenza: non ci sono cadute, né compiacimenti. L’alternanza tra momenti lirici, dialoghi asciutti, cori solenni e improvvisi squarci epici permette allo spettatore di attraversare la tragedia senza mai smarrirsi. Lo spettacolo non cerca effetti né complicità emotive. Chiede rispetto. Chiede ascolto. Chiede memoria. Alla fine, il pubblico del Teatro di Ostia Antica ha risposto con un lungo applauso, preceduto da un silenzio carico come una notte. Ifigenia non è solo una messa in scena riuscita. È un rito laico. Un grido civile. Un monito tragico. Come scriveva Marguerite Yourcenar in Fuochi (1936): “I sacrifici umani non sono mai cessati. Solo hanno cambiato metodo.”
Ecco perché questa Ifigenia ci riguarda. Perché dietro ogni mito ci sono ancora domande senza risposta. E dietro ogni tragedia, se è scritta e diretta con questa forza, c’è la possibilità di tornare a vedere. E di non dimenticare. Con Ifigenia, giunge a compimento il Teatro Ostia Antica Festival – Il senso del passato, prima edizione a cura del Teatro di Roma. Una rassegna che ha restituito centralità al teatro classico nel cuore palpitante del Parco Archeologico di Ostia Antica, con un crescendo di adesione da parte del pubblico e una costante tenuta sul piano artistico. Nonostante alcune difficoltà riscontrate nella lettura dei sopratitoli in lingua italiana – a causa della messa in scena in spagnolo – lo spettacolo ha incontrato un notevole favore da parte degli spettatori, a conferma della vitalità del mito anche nella sua trasposizione linguistica. Ostia Antica si configura dunque non soltanto come spazio della memoria, ma come scena vivente del presente, capace di coniugare il passato con l’urgenza dell’oggi. Per le prossime edizioni, andrà ottimizzata la gestione dei flussi, affinché la forza del mito non sia vanificata da disagi logistici che mortificano l’esperienza dello spettatore.