Maria Callas: “Il mio dramma d’artista e di donna” – 2

Ricordando Maria Callas  a 48 anni dalla morte.
Da “Oggi” – 16 gennaio 1958.
Di Maria Meneghini Callas
Vana Speranza
Ricordate: era l’1° gennaio; a Capodanno tutti sono in vacanza, anche in teatro non c’era nessuno. Alle 13 mio marito, impegnatosi affannosamente, riuscì a trovare un medico, che mi ordinò di fare dei cataplasmi alla gola, per vincere l’infiammazione ormai manifestatasi violentemente.  Incomincia a sottopormi al supplizio e continuai per il tutto il pomeriggio, fino alle prime ore della sera.
Dopo cena, finalmente, arrivò Sampaoli, il direttore artistico del teatro si era riusciti ad avvertire. “Come stai?”, mi chiese. “Male. Forse fareste bene a cercare di sostituirmi. Del resto, senti in che condizioni è la mia voce”. “Sostituirti? Brava, e con chi? E poi la gente ha pagato per sentire la Callas, sai; c’è poco da fare, bisogna che tu canti”.
Dovevo cantare. Mancavano ventiquattro ore, ad andare in scena: inghiottii un sonnifero e piombai nel nulla. Dormii dodici ore di seguito. Quando mi destai (e fui subito ripresa dal terrore) provai ad emettere un suono e mi sembrò di cominciare a sognare: cantavo! La mia voce era pronta, a mia disposizione!  In un impeto di gioia mi misi a pensare alla lieta serata che mi aspettava; mi dedicai ai consueti mille preparativi necessari ad una cantante per andare in scena. Alle due pomeridiane pranzai, mi riposai un’oretta ancora; ma poi compresi quanto era stata vana la mia speranza e fugace la mia gioia. La voce se ne stava andando di nuovo.

I cataplasmi avevano disinfiammato momentaneamente la mia gola, ma non curato la causa vera del male, una bronchite che del resto non poteva essere guarita in così breve tempo. Anzi, ora si stava manifestando ancor più preoccupante. Allora ebbe inizio quel pomeriggio del 2 gennaio, che rimane tra i più angoscianti della mia vita. Farmi sostituire? Impossibile. Annunciare che lo spettacolo doveva essere rinviato? Non era facile, in un’occasione come quella: inaugurazione della stagione, alla presenza del Capo dello Stato. Non era meglio che questa Callas cantasse comunque, come le sarebbe riuscito? Tanto, si sa, che la maggioranza della gente sarebbe venuta in teatro per passeggiare nei ridotti e pe far sfoggio d’eleganza! Così pensò certo più d’uno. Io guardavo l’orologio implacabile. provavo la mia voce che se n’andava a brandelli e mi sentivo sommergere dalla paura. Non dimenticate, vi prego, che sono una donna.
La “Tigre” entrò in teatro.
M’hanno dato il soprannome di “Tigre”, non soltanto per l’impeto con cui mi impegno nell’interpretazione dei più personaggi più drammatici., ma anche perché tante volte un critico musicale che mi conosce e mi stima, Eugenio Gara, ha ricordato, scrivendo di me, l’antico proverbio che dice: “Chi cavalca la tigre non può più scendere”. Ma, dunque, chi ma affibbiato Il nomignolo di “tigre” non ha capito il paragone. La “tigre” che è un artista cavalca è quella del successo dell’entusiasmo che suscita: è in ultima analisi non il cantante ma il pubblico stesso, che decreta quel successo. La sera del 2 gennaio la “tigre” entrò in teatro splendida e spaventosa, mentre già nel camerino io ero pronta, truccata e quasi senza voce. Per tenere a bada la “tigre” (continuiamo pure nel paragone) occorre avere un fucile a portata di mano. Con la mia arma – con la mia voce – mi era sempre riuscito. Ma quella sera ero disarmata. Allora inghiottì del chinino, e poi mi feci fare un’iniezione eccitante, di quelle che, come si suol dire “rimettono in piedi un morto”.
“Norma viene”…cantava già il Coro e io entrai in scena con il coraggio della disperazione. Toccava a me. Cominciai: “Sediziose voci…e poi “voci di guerra”, che
 sono si bemolle, la bemolle e Sol, note del registro centrale:  Sentendo il risultato, dissi tra me “Dio mio, il centro se n’è già andato del tutto. Speriamo che il resto resista “. Cantai” Casta Diva “e alla fine me l’ha presi mentalmente con chi m’ha applaudì: quella non era la mia” Casta Diva “, non volevo applausi. poi cantai la cabaletta, impegnando con terribile tensione ogni risorsa tecnica, e finalmente uscì di scena. Ero finita. Adalgisa e Pollione,  continuavano il loro duetto che chiudeva l’atto*, ma io avevo già deciso e andavo ripetendo a tutti non avrei continuato. Calò il sipario, vennero a prendermi per trascinarmi alla ribalta, forzando la mia volontà perché ho troppo alto il concetto dell’arte, e sentivo di non meritare applausi. La gente batteva le mani e io pensavo con dolore adesso dovrete tornare a casa subito. Mi chiusi in camerino.  Allora ebbe inizio la processione di quelli che volevano persuadermi ad andare avanti. “Canta lo stesso, canta in qualche modo, non si può mandare a casa da gente pensa che c’è il Presidente della Repubblica, pensa che tanti hanno cantato col mal di testa con la febbre con una caviglia slogata”. Ma io dissi di no. È vero, si può cantare con la febbre, si può cantare con le gambe doloranti con la testa che scoppia. Io stessa l’ho fatta più di una volta, ma non si può cantare senza voce. C’erano il Presidente della Repubblica e donna Carla, in teatro, è vero. Al capo dello Stato ho inviato una lettera per esprimere il mio profondo rammarico. A me non spettava di fare altro. Se i dirigenti del teatro, di fronte alla mia tempestiva dichiarazione che non avrei continuato, non hanno provveduto ad avvertire il capo dello Stato nelle debite forme, la circostanza concerne appunto quei dirigenti. Io non ho offeso Giovanni Gronchi. Certo io mi sono anche ricordata che sui manifesti c’era il nome di Vincenzo Bellini. Non potevo per salvaguardare esigenze di protocollo, recare offesa al grande musicista, mugolando gli altri atti della sua Norma, anziché cantarle. Così, la sera del 2 gennaio, è stato eseguito al Teatro dell’Opera di Roma, il primo atto della Norma: in modo non eccelso, se volete; ma correttamente. Agli altri atti è stata evitata ogni offesa.
Tornai in albergo con 38 di febbre. Il giorno dopo mi accorsi che il mio linciaggio era in atto, con violenza inaudita. Eppure non avevo vilipeso ne pubblico ne le istituzioni, non avevo usato sgarbo al capo dello Stato, non avevo attentato alla vita del teatro lirico italiano: avevo soltanto la bronchite. Allora mi tornarono in mente le parole della Traviata, le parole della mia Violetta: “Così, alla misera che è un dì è caduta, di più risorgere speranza è muta! Se pur benefico le indulge Dio, l’uomo implacabile per lei sarà!..” . E decisi che non avrei mai più cantato. Poi, nei giorni seguenti, sono successe tante cose. I telegrammi di solidarietà sono cominciati ad arrivare da tutto il Mondo, da ovunque sono giunte le lettere di amici e di sconosciuti tutte commoventi per l’affetto e l’ammirazione di cui traboccavano. Sono arrivati i fiori da riempire la mia stanza, sono giunte telefonate di persone illustri, la toccante manifestazione d’affetto del maestro Gavazzeni, di care colleghe come Giulietta Simionato e  Graziella Sciutti e del grande Luchino Visconti. Paolo Monelli, sia pur dopo uno scherzoso “processo” mi ha inviato dalle colonne della “Stampa” un ideale mazzo di rose che ho immensamente gradito. Per tutti, anche per quanti non riesco ora a ricordare, ho avuto un pensiero riconoscente. Donna Clara Carla Gronchi, una signora che ama davvero la musica e il cui animo conosce il valore delle gioie o della sofferenza che la vita ci destina ha detto a mio marito a proposito della disavventura che m’era capitata, parole che m’hanno profondamente toccato.
Nello stesso momento in cui la mia “bronchitella” incominciava ad esser vinta dalle medicine, la ferita del mio animo ha preso a rimarginarsi. e allora ho sentito, con un intima piccola indicibile gioia, che la mia voce tornava: la mia voce perché una voce che canta non è che un suono che si riempie di affetti. Con questa voce che mi è mancata per pochi giorni – cosa che è successa e succeda tanti cantanti – e che ora è tornata ad essere mia, continuerò a cantare, finché Dio mi darà forza: con tutta umiltà di fronte all’arte, e con infinito riconoscenza per quelli che in un momento triste non m’hanno abbandonato.
*Si inseriva un intervallo dopo il duetto Adalgisa-Pollione, in concomitanza con il cambio scena.