Milano, Teatro alla Scala: Trittico Lander/Kylián/Bèjart

Milano, Teatro alla Scala, stagione 2024/25
“TRITTICO LANDER / KYLIÁN / BÉJART”
“ÉTUDES”
Coreografia  Harald Lander (ripresa Johnny Eliasen)
Musica Carl Czerny (adattamento e orchestrazione, Knudåge Riisager)
Luci Teatro alla Scala da Harald Lander
Interpreti: NICOLETTA MANNI, MATTIA SEMPERBONI, NAVRIN TURNBULL, MARCO AGOSTINO
“PETIT MOZART”
Coreografia  Jiří Kylián (ripresa Elke Schepers)
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Pianoforte Takahiro Yoshikawa
Costumi Joke Visser
Luci Jiří Kylián realizzazione di Joop Caboort
“BOLÉRO”

Coreografia Maurice Béjart (ripresa Gil Roman, Piotr Nardelli)
Musica Maurice Ravel
Luci originali riprese da Marco Filibeck
Interpreti: ROBERTO BOLLE, CHRISTIAN FAGETTI, EDOARDO CAPORALETTI, DOMENICO DI CRISTO, EMANUELE CAZZATO
Corpo di ballo e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Simon Hewett
Milano, 24 settembre 2025
La serata è iniziata con Études, creato da Harald Lander nel 1948 per il Royal Danish Ballet, rimaneggiato nel ’52 per l’Opera di Parigi, e da lì venne consacrato al successo internazionale. Nasce come omaggio alla bellezza della tecnica accademica, una sorta di viaggio attraverso l’allenamento quotidiano, e attraverso i tempi, che partono dai primi passi codificati, passando dagli stilemi romantici e dai tutù da silfide, per approdare al grand ballet imperiale della scuola russa. Nel 1975, Clive Barnes, sul NY Times, lo definisce come “un superbo esempio di buon cattivo balletto”, perché “per gli standard normali e appropriati, Études è un balletto moderatamente orribile” per la “musica abominevole” (“una serie di quegli esercizi di pianoforte di Czerny che fanno schioccare le dita e intorpidiscono la mente, che sono tra i ricordi più dolorosi di tante adolescenze, orchestrati in modo pseudo-contemporaneo”), e per “la miserevole scenografia”, ma anche per la coreografia, che “non decide mai cosa sarà”: è una storia del balletto, ma anche una spettacolarizzazione dell’intera gamma del vocabolario della danza accademica. “I due obiettivi a volte convergono, non si incontrano mai e alla fine svaniscono”. “Dopo una noia moderatamente insopportabile” diviene poi “persino un gran bel cattivo balletto. Perché quando Lander finalmente si lascia andare e fa ballare la cosa, il cielo si scatena, ed è uno dei balletti più emozionanti del mondo, con un climax che si sviluppa su un climax, e un’impresa tecnica impossibile viene superata dalla successiva […] i passaggi finali non solo meritano l’attesa, ma possono anche offrire un’emozione insolita”. In parte, tralasciando le incomprensioni, non possiamo non dare tutti i torti a quest’opinione. Vogliamo però anche considerare che questa coreografia ci è parsa una sorta di prodromo di Jewels di Balanchine. Il rischio è quindi similare, quello di trasformare una creazione artistica in un saggio, e con un ulteriore fattore a svantaggio, la musica. Una partitura così frammentata induce il pubblico ad applaudire ogni tre minuti, e se il corpo di ballo non riesce a sostenere la liricità, la pomposità, che ha pure qualche venatura ironica – che traspare un po’ dalla musica (ad esempio nei primi pezzi, l’uso dei fiati ci è sembrato quasi da orchestra di paese specializzata in fanfare) – che c’è sotto quest’operazione, lo spettacolo diviene un susseguirsi di passi, danzati bene, e nulla più. Rischio che questa sera si è corso.
La serata è proseguita con La Petite Mort, di Jiří Kylián creata nel 1991 per il Nederlands Dans Theater, in occasione del bicentenario della nascita di Mozart: ne utilizza il romantico secondo movimento del concerto n. 23 e il celeberrimo terzo movimento del n. 21. Il titolo, che in francese allude sia al momento dell’orgasmo sia a un piccolo trapasso, vuole essere rivelatore del tema: un dialogo costante eros-morte, vitalità-caducità, le spade prolungamenti del corpo, simboli di conflitto ma anche di desiderio. Questa volontà di essere astratti, ma voler tenere salde radici da ciò da cui si è astratto, è una caratteristica che abbiamo già valutato in passato (in occasione di questa serata). Abbandonando questa visione, che ci appare inutile ai fini della fruizione, resta una coreografia che gode di felici scelte anche scenografiche: il grande telo mosso dai ballerini, usato per un cambio di scena che fa sparire con grandi svolazzi gli stessi ballerini; le spade, usate in maniera molto interessante; gli abiti finti e rigidi dietro cui danzano i corpi nascosti delle ballerine, sono una trovata che ha della poeticità, oltre che dell’inventiva. Tutto il cast ha saputo svolgere un lavoro tecnicamente egregio. Teniamo anche a sottolineare la bella esecuzione pianistica di Takahiro Yoshikawa. Si è poi concluso con un classico diventato pop. Roberto Bolle si è esibito in Bolero di Béjart: dopo averlo già visto più volte nel recente passato qui alla Scala, è stato da lui portato anche a Sanremo. Lo stesso Barnes, nel suo essere tagliente, premette che “musicalmente, il pezzo è assurdo. Un tour de force fin troppo forzato”, ma riconosce la raffinatezza di Béjart, che “crea una decisa atmosfera di sensualità attorno all’opera. […] Bolero mostra la teatralità sfacciata del signor Béjart al suo meglio […] un balletto pomposo ma, con le gambe e le mani giuste, non delude.” Il pregio di questa coreografia sta proprio nella genialità di svincolarlo non solo dall’originaria sede narrativa – l’ambientazione di Bronislava Nijinska, per cui aveva lavorato Ravel; e da questa coreografia è stato dimostrato che Béjart ha tratto molto – ma l’ha anche liberata dal sesso dei ballerini. Non essendoci più narratività, non era più necessario alcun tipo di vincolo: al centro della pedana ha dapprima posto una donna, e poi, con Jorge Donn, anche un uomo, circondandolo successivamente da altri uomini. Non era più una danza di seduzione, la coreografia era una esecuzione della partitura. Grande è stato il plauso del pubblico, con commenti di una certa raffinatezza a fine spettacolo (“è la terza volta che lo vediamo, e volano sempre reggiseni!”). A Ravel non piacque la prima del ’28, sembra che immaginasse lo spettacolo sullo sfondo di uno stabilimento industriale: forse immaginava una coreografia à la Tempi moderni, interpretando la sua stessa musica come una catena di montaggio (in fondo la musica è un “tour de force fin troppo forzato”)? Chissà se Béjart lo avrebbe soddisfatto.
Prossime repliche 25, 26, 28 e 30 settembre, 2 e 3 ottobre (Bolle nelle repliche del 28 e 30 settembre). Foto  Brescia & Amisano © Teatro alla Scala