MITO SettembreMusica 2025: Enrico Calesso e l’Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino

Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto, MITO SettembreMusica 2025
Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino
Direttore Enrico Calesso
Basso
Alexander Roslavets
Maestro del coro Ulisse Trabacchin
Dmitrij Šostakovič: Sinfonia n.13 in si bemolle minore op.113 “Babj Jar” per basso, coro maschile e orchestra su testi di Evgenij Aleksandrovič Evtušenko
Torino, 17 settembre 2025.
MITO 2025 chiude le sue locandine torinesi con la XIII° sinfonia di Šostakovič. Opera massima per grande orchestra, coro maschile di voci basse e basso solista. L’orchestra e il coro, a confermare il carattere autarchico della manifestazione, sono quelli cittadini del Teatro Regio. Dal Verdi di Trieste arriva il direttore Enrico Calesso. Si direbbe invece che il basso solista, Alexander Roslavets, sia approdato al Lingotto dopo aver superato indenne le contrapposte barriere politico-guerresche che stanno devastando l’Europa dell’Est. La XIII° sinfonia, denominata Babj Jar, riprende il titolo della prima delle cinque composizioni poetiche di Evgenij Evtušenko, e su di essa è costruito l’Adagio iniziale, vasto movimento d’apertura della sinfonia. Un adagio dolente, su cui dominano i toni scuri dei violoncelli e dei contrabbassi. Il diffuso e soffuso mormorio viene strappato da improvvisi gesti violenti e assordanti, veri marchi della poetica del compositore russo. È il poeta che ricorda il massacro di 34.000 ebrei ucraini, compiuto, nel 1941, da nazisti coadiuvati da forze locali. Il luogo della strage, nei pressi di Kiev, è la fossa di Babj Jar. La lirica richiama alla memoria e piange i fatti, affrontando così i rischi di una implacabile ritorsione del potere sovietico, che li vuole nascondere e tacitare. Come sempre in Šostakovič, il contenuto è chiaro ed esplicito e, questa volta, viene affrontato anche con coraggio. Pur minacciato da allarmanti avvisaglie che, intimorendo gli interpreti designati, rischiano di mandarne all’aria la creazione, si giunse a Mosca alla prima esecuzione, il 18 dicembre del 1962, con Kirrill Kondrašin sul podio. “Scoppi” improvvisi e altrettanto improvvisi “ripiegamenti”, folgoranti effetti teatrali, catturano se non il cuore, sicuramente l’interesse degli ascoltatori. Il secondo movimento Humour – allegretto, è uno scherzo leggero e beffardo che sferza e ridicolizza l’ottuso potere che perseguita umorismo e satira. Nel terzo All’emporio – adagio si celebrano, quasi santificandole, le donne che, al gelo e con pazienza, affrontano code estenuanti per uno scarso cibo scadente: una quasi santificazione della donna russa che, impavida e paziente, combatte eroicamente per il cibo e la famiglia. Dall’adagio dell’emporio si passa al Largo di Paure. Finalmente la paura è scomparsa dalla Russa! Tanta ce ne fu. La sinfonia data 1962, nove anni son trascorsi dal 1953 quando con la morte di Stalin si pose fine alle persecuzioni, alle purghe e alle notti in cui la Čeka diffondeva il terrore col bussare alle porte dei dissidenti. Il quinto movimento, Allegretto – la Carriera, probabilmente vi si celebra, oltre che la propria autostima, il successo, meritato, formalizzato e degno di ammirazione, di quanti, scienziati ed artisti, pur nel disprezzo del volgo, fecero progredire l’umanità. Viene citato, come paradigma Galileo, e con lui Shakespeare, Pasteur, Newton e Tolstoj. In questo movimento si inseriscono due episodi musicali che attraggono l’attenzione: un “pizzicato” degli archi che rimanda alla 4° sinfonia di Čaikovskij, una breve fuga alla Bach, lanciata degli archi a cui soccorrono i legni. Chi quelle musiche concepì si meritò la carriera e la fama che ebbe. Il clima generale è discreto e soffuso, pur con lo sfoggio di un’orchestrazione strepitosa, l’orchestra commenta con cautela e, seppur invasiva, non satura lo spazio con l’esposizione totalizzante di temi travolgenti e appassionati. Tra gli archi primeggiano quelli bassi: violoncelli, contrabbassi e viole. Tra i legni: clarinetti e fagotti. Lo squillo di flauti e oboi è dosato con molta cautela. Corni, e bassotuba sono leader tra gli ottoni. Il clamore delle fanfare interviene con quei “gesti” che momentaneamente infuocano un procedere costantemente sottotono. Molte le percussioni, ma, anch’esse, su note basse e discrete. Due pianoforti, arpe e celesta contribuiscono alla caleidoscopica colorazione di timbri che suonano su un sottofondo quasi da camera. La notazione preferisce lo staccato puntato al legato delle grandi frasi, per cui i temi, pur ripetuti, sono numerosi ma di poche note e con scarsa o nulla elaborazione. L’Orchestra del Teatro Regio di Torino e il direttore Enrico Calesso si sono immersi, come meglio non si sarebbe potuto, nell’immensa partitura. Difficile ripartire i meriti dell’avvincente risultato, tutte le sezioni orchestrali e tutti gli interventi solistici sono stati di un livello eccezionale. La XIII° è tutta cantata, il basso Alexander Roslavets è stato impegnato, quasi senza pause, per l’intera lunghezza, più di un’ora, della sinfonia. Un canto che si articola tra il recitativo e l’arioso e che probabilmente si rifà alle recite poetiche pubbliche di Evtušenko stesso. Un lussureggiante timbro di basso-baritono caratterizza la voce di Roslavets. La sua parte si snoda costantemente al centro del rigo di fa e non prevede particolari arditezze né verso il basso e neppure verso l’alto. Una magnifica proiezione, mai forzata, fa giungere la voce, ben distinta e comprensibile, al fondo della lunga platea. Pur se non si comprende il russo, si intuisce un canto con dizione scandita e netta che assicura la completa intelligibilità del testo. Con lui dialoga, commenta e si unisce la sezione dei Bassi del Coro del Teatro Regio, un ricco gruppo di una ventina di elementi che canta sempre all’unisono, dividendosi vocalmente in tre in una sola cadenza nel finale di un movimento; quando la voce del solista è con loro, anch’essa cantando con le stesse note, si rende indistinguibile. Il canto popolare e di chiesa hanno fornito impronta ed esempio. Ulisse Trabacchin, maestro del coro, ha ottenuto dal suo gruppo un risultato eccellentissimo: suono compatto e sonoro pur nei piano-pianissimo che lo permeano. Gli scoppi momentanei, nuclei di grande emotività, sono calibratissimi, controllati e mai sguaiati. La prova di grande sensibilità e maestria data dagli esecutori, è stata molto apprezzata e applaudita dal numerosissimo pubblico che affollava la sala. Un’autarchia di voci e di strumenti senz’altro meritevole del vasto e meritato successo conseguito.