Roma, Casa Museo Hendrik Christian Andersen
EUTOPIA: MANUELA BEDESCHI
Curata da Maria Giuseppina Di Monte e Valentina Filamingo
Fa parte delle Giornate Europee del Patrimonio 2025
Roma, 27 settembre 2025
Visitare una mostra nella Casa Museo Hendrik Christian Andersen significa entrare in un luogo sospeso, che non appartiene né al museo tradizionale né allo spazio neutro della galleria contemporanea. È una dimora che conserva in ogni dettaglio l’ossessione visionaria del suo proprietario, un artista che volle fare di Roma il centro del mondo attraverso la scultura monumentale e l’urbanistica utopica. In questo scenario, Eutopia di Manuela Bedeschi trova un terreno ideale, e non per semplice contrasto tra antico e moderno, ma per una continuità di intenzioni: Andersen cercava una “città mondiale”, Bedeschi costruisce con la luce una città immateriale, fatta di segni che guidano e orientano. Il titolo, volutamente puntuale, deriva dal greco: eutopia significa “buon luogo”. Non è l’utopia, cioè il non-luogo irrealizzabile, ma un orizzonte concreto, una condizione abitabile. Già qui si coglie una differenza sostanziale: non il sogno vano, ma l’attuazione possibile. Bedeschi da oltre venticinque anni lavora con la luce, non come vezzo decorativo, ma come sostanza attiva, tangibile, capace di incidere sulla percezione e di trasformare gli spazi. Le sue parole luminose, modellate nel neon, sono presenze precise, mai casuali, che modificano lo statuto stesso dell’ambiente in cui vengono collocate. Il percorso della mostra è stato concepito in chiave site-specific. Le installazioni non sono aggiunte estranee, ma veri innesti che si radicano nei saloni, nei corridoi, negli ambienti domestici della Casa Museo. Le frasi luminose, collocate in punti mirati, creano linee di forza che interagiscono con le grandi statue di Andersen. È un dialogo silenzioso, eppure incisivo: la pesantezza del marmo trova un contrappunto nella leggerezza del bagliore, la monumentalità si riflette nella fragilità incorporea della luce. Andersen era convinto che l’arte potesse rinnovare l’umanità. La sua idea di “Città mondiale” univa classicismo ed echi simbolisti in una sintesi che voleva farsi modello universale. Bedeschi, a distanza di un secolo, risponde con un linguaggio diverso ma con identica tensione: costruire non pietre e piazze, ma luoghi interiori, percorsi di senso. Dove Andersen affidava il suo messaggio alla materia resistente, lei lo affida alla vibrazione effimera del neon. Non c’è opposizione, ma continuità: entrambi concepiscono l’arte come pratica architettonica, uno con la scultura, l’altra con la luce. Dal punto di vista tecnico, l’opera di Bedeschi mostra un rigore che sorprende chi si aspetta dall’arte luminosa soltanto effetti spettacolari. Le parole piegate e sagomate con il neon hanno una qualità quasi calligrafica. Ogni curva, ogni interruzione, ogni accento sembra calibrato con attenzione, eppure nulla appare rigido. La luce scorre fluida, vibrante, e restituisce alla parola una forza che la pagina stampata non possiede. È un linguaggio che ha radici nelle esperienze concettuali e minimaliste degli anni Sessanta e Settanta, ma che in lei si rinnova in una dimensione lirica. Il rapporto con lo spettatore è diretto. Le frasi luminose non raccontano, non illustrano, non spiegano: pongono domande. Sono segni che il visitatore incontra come indizi lungo un percorso. La Casa Museo diventa allora un labirinto non di corridoi, ma di significati, e ogni scritta è una soglia. Si tratta di un’operazione che restituisce al museo la sua funzione primaria: non custodire reliquie, ma sollecitare pensiero. Inserita nel contesto delle Giornate Europee del Patrimonio, la mostra acquista anche un valore emblematico. Il tema scelto quest’anno, “Architetture: l’arte di costruire”, trova in Eutopia una declinazione precisa. Andersen erigeva architetture materiali, Bedeschi architetture immateriali; entrambi mostrano come l’arte possa diventare struttura portante, non solo ornamento. È un messaggio che si lega all’attualità con naturalezza, senza bisogno di forzature. Il museo, sotto la direzione di Maria Giuseppina Di Monte, si conferma come spazio vivo. Non una casa cristallizzata, ma un organismo capace di accogliere linguaggi diversi. La collaborazione con Valentina Filamingo alla curatela ha permesso di orchestrare un percorso che non invade, ma si integra. Le installazioni luminose non sovrastano le sculture di Andersen, né si riducono a semplici note a margine. Piuttosto, agiscono come un controcanto, un filo sottile che lega passato e presente. Quello che colpisce maggiormente è la capacità di Bedeschi di muoversi con naturalezza fra memoria e attualità. Le sue opere non cercano di oscurare il museo, né di imporre una presenza aggressiva. Al contrario, si innestano negli interstizi, nei silenzi, negli spazi lasciati vuoti. È in questa misura che risiede la loro forza: la luce non cancella, ma rivela. La visita alla mostra diventa un esercizio percettivo. Si entra in un ambiente che già di per sé racconta una visione del mondo, quella di Andersen, e ci si trova a seguire tracce luminose che la rinnovano. Ogni stanza è attraversata da un equilibrio delicato: la materia pesante dei corpi scolpiti e la leggerezza delle scritte luminose si confrontano, si sfiorano, e producono una tensione che rende l’esperienza viva. Non si tratta di scenografia, ma di un reale scambio di energie. Questa operazione mostra quanto sia ancora possibile far dialogare linguaggi apparentemente inconciliabili. L’errore più comune, quando si porta il contemporaneo in un museo storico, è il contrasto forzato. Qui non accade. Bedeschi non entra in conflitto con Andersen, ma lo mette in prospettiva. Le sue opere di luce permettono di guardare diversamente le statue monumentali, di coglierne sfumature che altrimenti rischierebbero di restare mute. Il risultato complessivo è un “buon luogo”, proprio come recita il titolo. Non un non-luogo irreale, ma una condizione possibile, concreta. Eutopia dimostra che il museo può essere ancora spazio generativo, che la luce può farsi architettura interiore, che l’arte, quando è guidata da rigore e misura, riesce a collegare epoche lontane senza bisogno di proclami. In un momento storico in cui le parole “utopia” e “visione” rischiano di sembrare ingenue, Bedeschi restituisce loro dignità, offrendo una dimostrazione tangibile che la bellezza può ancora essere costruita.