Roma, Gnam: “Ahmet Güneştekin. Catalogo della Mostra Yoktunuz”

Ahmet Güneştekin – Yoktunuz (Eravate assenti)
Silvana Editoriale, 2025
Artista: Ahmet Güneştekin (Batman, 1966), turco di origine curda
Formato: 24 × 30 cm
Pagine: 224
Edizione bilingue italiano/inglese
ISBN/EAN: 9788836663200
Prezzo: € 32
Non si resta neutrali davanti a certi libri. Si può fingere, certo: si sfoglia distratti, si posa sul tavolo, si passa oltre. Ma il corpo sa quando è stato toccato. YOKTUNUZ — “eravate assenti” — non è un titolo furbo: è un modo di bussare alla porta della nostra coscienza e chiedere chi c’è davvero, adesso, qui. La Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma accompagna la mostra di Ahmet Güneştekin con un catalogo edito da Silvana Editoriale. Non è l’oggetto elegante da esibire a fine visita: è una prova a carico e a discarico, tutte e due insieme. Dentro ci sono le opere, fotografate senza anestesia, e ci sono le parole che non addomesticano: il saggio di Sergio Risaliti, la lunga conversazione con Paola Marino, l’intervento di Renata Cristina Mazzantini, e il testo di Santa Nastro che ricostruisce la rimozione di Picco di Memoria. Un episodio che molti vorrebbero archiviare come incidente tecnico; invece è un rivelatore. Quando la memoria disturba, si prova a toglierle spazio. E proprio lì capisci quanto sia necessaria. Chi è l’artista che ci chiede conto del nostro sguardo? Ahmet Güneştekin nasce a Batman nel 1966, in quella Turchia dove le frontiere non sono linee sulla carta ma cicatrici sulla pelle. Le sue origini curde non sono una biografia esotica: sono il punto da cui parte la domanda più semplice e più scomoda—chi decide chi è visibile e chi no? La sua pittura è un verbo in sottrazione: stendere strati scuri, incidere, scavare, finché il colore non affiora come una bruciatura. Non è un’ornamentazione di superficie; è un atto. Ogni opera porta un segno che somiglia a una ferita rimarginata male: bella e dolorosa nello stesso tempo. Le pagine del catalogo sono un attraversamento, non un riassunto. I soli a più occhi, i sarcofagi incisi di alfabeti cancellati, gli oggetti recuperati dalle macerie—case, strade, vite—non chiedono interpretazioni brillanti; chiedono responsabilità. Non “cosa significa”, ma “che cosa mi riguarda”. Perché una scarpa di bambino senza piede non è un simbolo, è un’assenza che pesa. E i miti che arrivano dall’Anatolia o dalla Mesopotamia non stanno in un capitolo di storia antica: si accendono nel presente, come brace sotto la cenere. La mostra ha scelto il dialogo, non il recinto. Le opere di Güneştekin sono entrate tra Canova, Balla, Martini: non per vincere un confronto, ma per spostare il baricentro della bellezza. Da una parte il marmo levigato, dall’altra il ferro spezzato; da una parte l’ideale, dall’altra il quotidiano ferito. La domanda non è chi sia più “alto”: la domanda è che cosa chiamiamo comunità quando mettiamo accanto il monumento e il rottame, la forma perfetta e la vita spezzata. Se la bellezza non sa tenere insieme le due cose, è una bellezza che non basta. Il titolo YOKTUNUZ parla al plurale e al passato: eravate assenti. Ma ogni pagina, ogni immagine, ogni riga di questo libro sposta il tempo al presente. Dove siamo adesso? In quale assenza ci riconosciamo? Gli esclusi non sono un capitolo remoto: sono i corpi che non vediamo perché non ci conviene vederli. Le lingue negate, le culture spostate ai margini, le storie tagliate via: non stanno in un museo per essere pacificate, stanno in un catalogo per diventare compito. Non basta “ricordare”: bisogna lasciare che il ricordo cambi forma alle nostre abitudini. Il testo di Santa Nastro sulla rimozione di Picco di Memoria non cerca colpe da esibire, cerca responsabilità condivise. È facile parlare di prudenza, di protocolli, di sicurezza. È più difficile ammettere che a volte manchiamo il coraggio di reggere lo specchio che l’arte ci porge. Togliere un’opera che parla di memoria è un modo di rimuovere la memoria un’altra volta. Eppure qualcosa accade: l’assenza diventa più visibile della presenza negata. La ferita non si richiude, chiede cura. Dentro questo catalogo c’è anche la forma concreta del patto: un’edizione bilingue per far circolare la voce, un formato ampio per non trasformare le opere in miniature, una legatura solida per resistere al tempo. Sono dettagli editoriali, sì, ma dicono una visione: la memoria non è un evento stagionale, è un esercizio che si ripete. La mostra si chiude, il catalogo resta: lo si prende in mano come si prende in mano una storia che non ci apparteneva e ora non possiamo più restituire. C’è poi un dato che va detto senza enfasi e senza falsa modestia: Güneştekin è il primo artista dalla Turchia a presentare una personale alla Galleria Nazionale di Roma sotto la direzione di Renata Cristina Mazzantini. Non è un primato da calendario; è un varco. Significa allargare la casa comune perché dentro entri anche ciò che prima restava sull’uscio. E quando alcune opere entrano nella collezione, non diventano trofei: diventano un “noi” più grande. A chi serve questo catalogo? Non a chi cerca l’alibi della cultura ben frequentata. Serve a chi accetta di essere chiamato per nome. A chi sa che una pagina può cambiare la postura del corpo, come quando ci si raddrizza senza pensarci. A chi riconosce che “memoria” non è una parola gentile per addolcire il passato, ma una parola esigente per trasformare il presente. Possiamo ancora scegliere di essere assenti. Possiamo chiudere il volume, posarlo, tornare alle nostre cose. Ma c’è un’altra via, più scomoda e più vera: restare. Restare davanti alle pagine che graffiano, alle immagini che non lasciano dormire, alle domande che non fanno sconti. Restare non per devozione, ma per giustizia. Perché senza la giustizia della memoria, nessuna comunità regge: si sfalda al primo urto, si frantuma come vetro troppo tirato. Questo catalogo non chiede di essere amato; chiede di essere ascoltato. Non promette consolazione; promette presenza. Se lo apri davvero, non sei più spettatore: diventi parte in causa. E allora il titolo smette di accusare e comincia a includere. Non “eravate assenti”, ma “siamo presenti”. Qui. Adesso. Con la responsabilità di restare.