Roma, Museo Storico della Fanteria: “Gauguin. Il diario di Noa Noa e altre avventure”

Roma, Museo Storico della Fanteria
GAUGUIN. IL DIARIO DI NOA NOA E ALTRE AVVENTURE
Curatore Vincenzo Sanfo
Comitato scientifico Gilles Chazal, presidente onorario del Musée du Petit Palais di Parigi, Giovanni Iovane, storico dell’arte ed ex direttore dell’Accademia di Brera
Istituzioni promotrici: Navigare Srl su iniziativa del Ministero della Difesa
Dal 6 settembre 2025 – 25 gennaio 2026
Roma, 05 settembre 2025
C’è un’ironia sottile, forse involontaria, nel collocare una mostra dedicata a Paul Gauguin in un luogo come il Museo Storico della Fanteria a Roma. Non già in una galleria d’arte, né in un museo moderno e neutro, ma in un’istituzione che custodisce memorie militari. È come se la scelta volesse rivelare, per contrappasso, il carattere di “conquista” che l’Occidente esercitò sul mito dell’esotico: un’occupazione dello sguardo non meno perentoria di quella territoriale. Perché, a ben guardare, Gauguin non si limitò a descrivere la Polinesia: la piegò, la reinventò, la costruì come scenario di una fuga romantica e di una autocelebrazione. Dal 6 settembre 2025 al 25 gennaio 2026, la mostra Gauguin. Il diario di Noa Noa e altre avventure raccoglie più di cento opere: disegni, litografie, sculture, pagine di diario. L’intento dichiarato è quello di restituire l’immagine di un Gauguin intimo, fragile e visionario. Ma la verità è che ci troviamo davanti a un artista che non ha mai smesso di essere europeo, anche quando si illudeva di dissolversi nell’altrove polinesiano. Il diario Noa Noa, redatto nel 1893 al ritorno dal primo soggiorno a Tahiti, è al centro dell’esposizione. L’opera è stata a lungo considerata testimonianza diretta della vita quotidiana dell’artista nelle isole. In realtà si tratta di un testo costruito, manipolato, in cui l’esperienza vissuta si mescola con la finzione letteraria. Daniel de Monfreid, amico e sodale di Gauguin, ne arricchì le pagine con xilografie a colori: un dialogo tra testo e immagine che, più che documentare, mitizza. È la Polinesia che Gauguin vuole farci vedere, non quella reale. Una Polinesia mentale, distillata, reinventata come alternativa alla civiltà europea che egli detestava. Si potrebbe dire che Gauguin non trovò mai un altrove puro, ma lo fabbricò a misura delle proprie esigenze. Il mito polinesiano diventa così strumento ideologico, proiezione simbolica, talora puro ornamento. Non è un caso che nelle xilografie appaiano miti e leggende: l’artista non si limitò a osservarli, li piegò a una sensibilità già formata dalla cultura europea, filtrandoli attraverso un primitivismo di maniera. La mostra offre esempi interessanti in questa direzione. Il Studio di braccia, mani e piedi, un monotipo tratto dalla celebre raccolta di fogli superstiti al rogo ordinato dalle autorità religiose, ha il fascino dell’oggetto miracolato. Non perché riveli qualcosa di essenziale sulla cultura polinesiana, ma perché mostra Gauguin nella sua tensione a fissare il corpo come grammatica primordiale, quasi anatomia sacra. Che il disegno si sia salvato per puro caso lo carica di aura: reliquia più che documento. Una sezione è poi dedicata alle sculture polinesiane di Gauguin. Qui l’artista abbandona la tela per cercare una tridimensionalità rude, quasi arcaica. Ma il risultato non ha la potenza della scultura nativa, bensì l’aspetto di un ibrido: un europeo che tenta di appropriarsi di un linguaggio altrui, senza possederne la radice. È il limite intrinseco di tutta la sua operazione. Di grande interesse sono anche le litografie preparate per Avant et Après, che la critica ha definito il “testamento spirituale” di Gauguin. Si tratta di fogli che svelano la volontà ossessiva di mitizzare la propria figura. Gauguin non racconta semplicemente le sue vicende: le trasfigura in simbolo. Ecco l’artista che si erige a profeta, martire, visionario. È un atteggiamento che ha sedotto generazioni di ammiratori, ma che andrebbe guardato con sospetto: dietro l’eroismo romantico, vi è un’operazione di auto-narrazione, di costruzione consapevole della propria leggenda. Tra i materiali più rivelatori dell’esposizione, vi è infine il taccuino personale. Qui Gauguin appare non più come l’asceta delle isole, ma come uomo concreto, alle prese con la contabilità: dipinti venduti, barattati, donati. È il lato pratico che la mitologia artistica ha a lungo occultato, preferendo l’immagine dell’artista maledetto e solitario. In quelle pagine compaiono i nomi di Vincent van Gogh ed Émile Bernard, a dimostrazione di come la rete dei rapporti europei rimanesse imprescindibile. Gauguin non fu mai davvero isolato; fu piuttosto un artista che oscillava tra il bisogno di fuga e l’impossibilità di recidere il legame con il proprio mondo. Il percorso espositivo, prodotto da Navigare srl, ha il merito di riunire materiali eterogenei, offrendo al visitatore un quadro complesso. Ma il rischio è quello di cedere all’incanto decorativo, lasciando intatto il mito dell’esotismo come rifugio incontaminato. È invece compito della critica smascherare questa illusione. Gauguin non documentò la Polinesia: ne fece un teatro simbolico, proiezione della propria inquietudine e della propria ribellione. In questo senso, la collocazione della mostra al Museo Storico della Fanteria assume un significato che va oltre l’aneddoto. L’esotismo di Gauguin non è innocente: è parte di un processo di appropriazione culturale che, nel XIX secolo, procedeva di pari passo con l’espansione coloniale. L’artista, forse senza piena coscienza, trasformò in ornamento ciò che altri, in Europa, trasformavano in possedimento politico. Ecco allora che visitare la mostra diventa un esercizio critico: occorre guardare dietro la patina colorata, dietro la grazia delle xilografie e dei disegni, per cogliere la contraddizione di un’arte che si proclama fuga e invece resta intrappolata nel suo stesso orizzonte europeo. È questo, paradossalmente, il vero valore dell’esposizione: non tanto illustrare Gauguin, quanto smascherarne le mitologie. Il visitatore disposto a superare la fascinazione superficiale troverà in queste sale non il sogno di un eden ritrovato, ma l’immagine di un artista europeo che fa del mito esotico il palcoscenico della propria autocelebrazione. Ed è bene ricordarlo, oggi più che mai, mentre il discorso sull’arte e sull’alterità rischia di cadere nella complicità acritica.