Roma, Palazzo delle Esposizioni
CARLO D’ORTA. ASTRAZIONI ARCHITETTONICHE
a cura di Fabio Mongelli
Promotori Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e Azienda Speciale Palaexpo
Roma, 04 settembre 2025
La fotografia di Carlo D’Orta rappresenta un esercizio di metamorfosi dello sguardo. Nata dalla più rigorosa osservazione dell’architettura, si libera progressivamente dal vincolo del documento per approdare a un linguaggio che appartiene alla pittura astratta e all’immaginario contemporaneo.
La sua opera, al centro della mostra Astrazioni architettoniche ospitata dal Palazzo Esposizioni di Roma, si colloca dunque in quella tradizione che considera la fotografia non come specchio fedele, ma come dispositivo capace di tradire la realtà e restituirla in forma di visione. D’Orta, fiorentino del 1955, ha fatto della città il suo laboratorio: cemento, vetro, acciaio diventano pigmenti. Non fotografa edifici per ricordarli, né per documentarne lo stile. Li assume come pretesto, come materia grezza da piegare e trasformare. Il risultato sono immagini che non rassicurano, ma destabilizzano, che chiedono all’occhio dello spettatore di ricalibrare continuamente la propria percezione.
L’esposizione riunisce quattro serie principali: Biocities, Geometrie Still Life, Vibrazioni e Paesaggi Surreali. Ognuna di esse esplora un diverso registro dell’astrazione visiva, mantenendo però costante il principio di fondo: dislocare l’architettura dal suo ruolo funzionale per restituirla come pura esperienza estetica. Biocities propone una sorta di mappa interiore delle metropoli: rettangoli, linee e colori che ricordano Mondrian o Malevič, ma traslati nel linguaggio fotografico. Non più grattacieli o facciate, bensì pattern che rivelano un ordine segreto. Geometrie Still Life è invece più intima: dettagli architettonici – angoli, finestre, travi – vengono isolati dal contesto fino a diventare oggetti autonomi, nature morte del paesaggio urbano. Con Vibrazioni e Paesaggi Surreali il linguaggio cambia registro. Qui dominano riflessi e deformazioni: lastre metalliche, superfici vetrate, specchi urbani che restituiscono la città in forme instabili, moltiplicate, quasi liquide. L’immagine diventa allora flusso, instabilità, sogno.
L’eco futurista è evidente: Balla, Boccioni, Severini riecheggiano nei frammenti in movimento. Eppure c’è anche Gaudí, con le sue curve impossibili, architettura che già allora sembrava desiderosa di evadere dalla propria materia. La forza del lavoro di D’Orta risiede proprio nella contraddizione: ciò che osserviamo è, nello stesso tempo, impronta del reale e creazione autonoma. L’edificio non scompare, ma si nasconde sotto l’astrazione, come radice silenziosa. È questa tensione, sospesa e irrisolta, a dare alle fotografie il loro fascino ipnotico. La mostra romana non ha soltanto il merito di offrire al pubblico un corpus ampio e coerente, ma anche di rilanciare una riflessione sulla funzione della fotografia oggi. In un mondo saturo di immagini immediate, destinate a essere consumate e dimenticate, D’Orta sceglie un approccio opposto: sottrae invece di accumulare, rallenta invece di accelerare. Costringe a fermarsi, a guardare, a interrogarsi. Non sorprende che le sue opere abbiano trovato collocazione in istituzioni di rilievo – dalla Camera dei Deputati alla Banca d’Italia, dagli Istituti Italiani di Cultura a New York e Monaco di Baviera fino al Consolato Generale d’Italia. Sono presenze che dialogano bene con spazi istituzionali: immagini che raccontano un’Italia contemporanea, astratta, cosmopolita, diversa dai cliché monumentali, ma ugualmente rappresentativa.
Il ruolo del curatore, Fabio Mongelli, è qui tutt’altro che marginale. L’allestimento nella Sala Fontana evita la trappola della ridondanza e dispone le opere come variazioni su un tema comune. Il visitatore non viene travolto da un eccesso di immagini, ma accompagnato in un percorso di progressiva immersione: dalla rigidità geometrica di Biocities alla fluidità instabile dei Paesaggi Surreali. Una scala percettiva, in cui ogni passo conduce più lontano dal documento e più vicino alla visione. L’impressione che si ricava, uscendo dalla mostra, è quella di aver fatto esperienza di una città parallela: non Roma, Milano o Berlino, ma un paesaggio urbano astratto, universale, costruito di riflessi e superfici. Una città che non esiste, eppure abita la nostra memoria visiva con la stessa intensità delle città reali. Questa operazione, per quanto raffinata, non ha nulla di elusivo. Non è un gioco intellettuale per pochi iniziati. È un invito chiaro a guardare di nuovo ciò che ci circonda. Perché un palazzo non è solo un palazzo, una vetrata non è solo un confine trasparente. Sono anche campi di colore, linee, prospettive che attendono di essere viste in altro modo. L’arte di D’Orta ha dunque un valore educativo: insegna a non fidarsi troppo del primo sguardo, a sospettare che sotto la superficie della realtà ci sia sempre un altro livello, pronto a rivelarsi se osservato con attenzione. È questa pedagogia dello sguardo che rende Astrazioni architettoniche una mostra necessaria, in grado di parlare a un pubblico vasto senza semplificare. Carlo D’Orta propone con la sua fotografia una lezione che riguarda non soltanto l’arte, ma il nostro modo di vivere lo spazio urbano. Ogni città è insieme solida e instabile, riconoscibile e sconosciuta. L’occhio che sa guardare, e che accetta di lasciarsi sorprendere, scopre che la realtà non è mai univoca, ma molteplice. La fotografia, allora, non è più specchio: è metamorfosi.