Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
TITUS – Why don’t you stop the show?
da William Shakespeare
con Francesco Montanari e Marianella Bargilli
e con Guglielmo Poggi, Ivan Olivieri, Beatrice Coppolino,
Claudia Grassi, Jacopo Riccardi, Giuliano Bruzzese,
Filippo Rusconi, Enrico Spelta, Matilde Pettazzoni
Scene Fabiana Di Marco
Costumi Alessandra Benaduce
Adattamento e regia Davide Sacco
Roma, 30 settembre 2025
Ogni epoca riconosce in alcune opere il proprio trauma inaugurale, testi che non si limitano a raccontare ma agiscono come specchi deformanti, riflettendo l’inconscio collettivo. Titus Andronicus, all’inizio della produzione shakespeariana, è stato a lungo relegato a esercizio giovanile, repertorio di crudeltà. In realtà, quell’eccesso è la sua verità: la violenza diventa grammatica del potere, legge ferrea che ordina rapporti, eredità e vendette, ma anche detonatore delle pulsioni nascoste che chiedono rappresentazione.
Davide Sacco, con TITUS – Why don’t you stop the show?, riporta questo meccanismo nell’attualità. Il titolo interroga frontalmente lo spettatore: davvero vuoi che la sequenza continui? Il teatro smette di essere intrattenimento, si trasforma in specchio che non concede scampo. Ogni immagine apre una ferita, incrina la distanza con cui consumiamo la crudeltà mediatica. La scenografia di Fabiana Di Marco è un dispositivo crudele: un cratere di pietra che inghiotte parte della platea e costruisce un doppio livello scenico. Le asperità selvagge, le catene, le strutture di ferro e i ponti sospesi evocano un’officina arrugginita, un mattatoio dell’umanità. Qui i corpi si muovono come prigionieri, costretti a inciampare tra grate e impalcature che azzerano la libertà. Non sono attori che recitano, ma carne esposta, materia sezionata. Lo spettatore è obbligato a sostare in questo paesaggio minerale e industriale, dove pietra e metallo diventano macchina tragica che frantuma le identità. Sacco orchestra una drammaturgia d’assedio: luci che colpiscono come fendenti, suoni spinti fino alla distorsione, ritmo che incalza senza respiro. L’esperienza non è visione distante, ma coinvolgimento fisico.
Il sangue versato in scena non è effetto ma simbolo, segno che cancella la consolazione della finzione. Non si può dire “è solo teatro”: il palcoscenico diventa riflesso spietato del nostro presente. L’allestimento dissemina citazioni visive che risuonano con la cronaca: corpi violati, torture, umiliazioni. Non sono illustrazioni didattiche, ma frammenti che smascherano la continuità tra il mito elisabettiano e le immagini quotidiane. Si compone così un repertorio comune dell’orrore, un archivio che non provoca più scandalo, perché la nostra sensibilità si è spenta. Qui sta la posta in gioco: non tanto mostrare la violenza, ma rivelare la nostra indifferenza. In questo contesto Francesco Montanari plasma un Titus complesso, sospeso tra inflessibilità militare e fragilità umana. Non indulge nell’enfasi né nel naturalismo, ma costruisce un percorso fatto di fratture emotive improvvise. Il generale vittorioso si trasforma in carnefice, fino a diventare vittima della propria spirale vendicativa. Montanari non propone un eroe né un mostro, ma un uomo che ci obbliga a misurarci con l’instabilità del confine tra giustizia e crudeltà. Accanto a lui, Marianella Bargilli offre un contrappunto incisivo, radicando la presenza femminile in una forza drammatica essenziale. Straordinario Guglielmo Poggi nel ruolo di Saturnino, capace di oscillare tra ironia grottesca e crudele autorità, dando corpo a una regalità corrosa e instabile. Intorno a loro, Ivan Olivieri, Beatrice Coppolino, Claudia Grassi, Jacopo Riccardi, Giuliano Bruzzese, Filippo Rusconi, Enrico Spelta e Matilde Pettazzoni formano un coro organico, collettività scenica che amplifica la tensione e restituisce al dramma la sua natura rituale.
I costumi di Alessandra Benaduce, intrecciando suggestioni arcaiche e contemporanee, contribuiscono a sospendere il tempo in una dimensione senza coordinate. La regia evita sia il compiacimento estetico sia la tentazione moraleggiante. La violenza non è spettacolarizzata, ma svelata come meccanismo ciclico, psichico e sociale. Il teatro si conferma come luogo in cui il pubblico deve fare i conti con una domanda ineludibile: fino a dove siamo disposti a riconoscerci nella spirale della vendetta. Non c’è catarsi, non c’è consolazione. L’esperienza lascia addosso allo spettatore l’angoscia come cicatrice, la consapevolezza come ferita. È in questa rinuncia alla pacificazione che lo spettacolo trova la sua urgenza. Shakespeare, attraverso Sacco, non ci offre morale né conforto, ma il rischio del pensiero. Titus Andronicus si conferma così opera viva, archeologica e futurista insieme: un teatro che scava nella memoria primitiva del sangue e al tempo stesso anticipa la brutalità del presente, dove la pietra diventa carne e il ferro si fa sangue.
Il pubblico non è rimasto passivo. In più momenti ha interrotto lo spettacolo, non per rifiuto ma perché travolto dall’urgenza del testo, sentendone la bruciante attualità. Una partecipazione non di consumo ma di tensione collettiva, che ha trasformato la platea in un coro reattivo, oscillante tra turbamento e riconoscimento. E proprio questa dialettica fra rappresentazione e vita ha decretato il successo finale: lunghi applausi, chiamate ripetute, un consenso che non era semplice gratificazione estetica, ma adesione a un’esperienza vissuta come necessaria. Photocredit Teatro Quirino Vittorio Gassman