Roma, Teatro Vascello: “Microclima”

Roma, Teatro Vascello
MICROCLIMA
Scritto e diretto da Alessia Cristofanilli
Con Federico Gatti, Sylvia Milton, Francesco Morelli
Movimenti di scena Alberto Bellandi
Scene Eleonora Ticca
Costumi Nika Campisi
Organizzazione e Ufficio Stampa Chiara Crupi – Artinconnessione
Consulente politologo Luca Argenta
Produzione Fragile Spazio, Fondazione Friedrich-Ebert-Stiftung La Fabbrica dell’Attore in collaborazione con

Media Partner Scomodo- La redazione
Roma, 24 settembre 2025
Ogni società produce i propri spazi simbolici, luoghi in cui il tempo si congela e la realtà appare sotto una lente deformante. In Microclima questo spazio è una serra: habitat artificiale che custodisce la vita, ma al tempo stesso la controlla e la limita. Non una metafora generica, bensì un dispositivo drammaturgico che interroga la fragilità del presente. Centotrentotto piante e una famiglia di cinque persone convivono in questo microcosmo chiuso, sospeso tra cura e asfissia, memoria e collasso. È qui che il teatro di Alessia Cristofanilli fa emergere la sua carica più perturbante: mostrare come la quotidianità privata diventi riflesso e sintomo di una condizione storica più ampia. Il numero delle piante non è un dettaglio ornamentale: è cifra precisa, spigolosa, non arrotondata. Centotrentotto non è armonia, è eccesso. Genera un senso di inventario, di archivio ossessivo, come se ogni pianta fosse un frammento di memoria, un resto di battaglie ormai consumate. Eppure, invece di liberare, questo accumulo imprigiona. La serra diventa camera di pressione, un ambiente saturo in cui l’aria è al tempo stesso nutrimento e veleno. Così la memoria politica e affettiva, quando non viene rielaborata, smette di essere forza e diventa catena. In questo scenario si muovono Edda e Rud, due ex attivisti sospesi in un presente senza coordinate. Hanno perso il linguaggio della lotta, restano imprigionati in una quotidianità che si ripete uguale, immobile. Ma basta una frase pronunciata durante una cena per incrinare la patina di normalità e rivelare l’abisso che li separa da ciò che erano. La crisi non esplode con fragore, si insinua come infiltrazione silenziosa, trasformando l’ambiente domestico in paesaggio interiore. Gli interpreti – Federico Gatti, Sylvia Milton e Francesco Morelli – restituiscono questa tensione con un lavoro scenico corale che si distingue per rigore e intensità. La loro performance non cerca effetti esterni, ma costruisce dall’interno un’atmosfera percettibile quasi fisicamente. Gli sguardi, le pause, le inflessioni vocali diventano fenditure aperte nello spazio: non illustrano, ma scavano. È una recitazione calibrata sulla sottrazione, che vibra in sintonia con l’umidità della serra e con la crescita muta delle piante, fino a trasformarsi in partitura atmosferica. La regia di Cristofanilli modella questo mondo con precisione chirurgica. Non vi è frattura netta tra l’intimo e il collettivo: ciò che accade fuori filtra dentro, e ciò che si consuma tra le mura domestiche riverbera sul piano politico. È proprio in questa osmosi che si colloca la potenza visionaria dello spettacolo: il “microclima” non è solo condizione atmosferica, ma metafora di un’epoca in cui la vita privata è continuamente attraversata dalla pressione del contesto storico. Lo spettacolo si inserisce così nella grande tradizione del teatro politico europeo. Come in Brecht, la scena rinuncia alla catarsi per sollecitare un atteggiamento critico. Come in Weiss, la memoria e la responsabilità diventano materia drammatica che pesa sui corpi. E nei silenzi sospesi, nei frammenti interrotti, si avverte l’eco di Müller, dove il teatro si fa rovina, spazio in cui il passato sopravvive a brandelli e il presente fatica a trovare voce. Cristofanilli non imita, ma raccoglie questa eredità, rendendola attuale attraverso una scrittura asciutta e implacabile. La collaborazione con la Fondazione Friedrich-Ebert-Stiftung aggiunge un ulteriore livello di senso. Un’istituzione che ha fatto della giustizia sociale e della difesa dei diritti umani la propria missione sceglie di affidarsi al teatro per affrontare una delle questioni più sottili della contemporaneità: la normalizzazione delle destre. È una scelta politica e culturale al tempo stesso, perché riconosce alla scena un potere di intervento che altre forme di comunicazione non possiedono. Laddove il convegno argomenta, il teatro smuove; laddove l’analisi elabora, la scena incrina, mette a disagio, costringe a interrogarsi. Il cuore di Microclima resta però psicologico. La serra non è soltanto spazio scenico, è metafora mentale: fertile e soffocante, generosa e opprimente. Le 138 piante sono un accumulo di passato che soffoca il presente. La loro crescita ininterrotta è la materializzazione di una memoria che non lascia respirare, che avvolge i personaggi fino a immobilizzarli. Ed è qui che lo spettatore viene interpellato: chi di noi non abita serre invisibili, fatte di convinzioni, ideali, ricordi che invece di nutrire finiscono per intrappolare? I personaggi non appaiono come eroi o vittime, ma come specchi. In loro si riflette una generazione che ha visto evaporare l’utopia e che ora convive con la cenere del compromesso. La domanda che lo spettacolo insinua – senza mai formularla apertamente – è radicale: fino a che punto si può restare fedeli a un ideale senza condannarsi all’irrilevanza? E fino a che punto scendere a compromesso senza tradirsi del tutto? La forza di Microclima sta proprio nel rifiuto di rassicurare. Non offre morali edificanti né finali concilianti. È teatro che punge, che lascia addosso l’umidità vischiosa della serra, che penetra nei vestiti e resta sulla pelle. Ma è proprio in questo disagio che si produce l’energia autentica della scena: l’impossibilità di restare indifferenti, il dover uscire dalla sala con una domanda irrisolta. Il pubblico lo percepisce con chiarezza. L’attenzione resta tesa dall’inizio alla fine, senza cedimenti. Gli applausi arrivano lunghi, liberatori, come un respiro trattenuto troppo a lungo. Non sono un tributo di circostanza, ma il segno di un’esperienza che ha lasciato traccia. Microclima non ha soltanto raccontato una storia: ha inciso una ferita, ha depositato nello spettatore un dubbio che continuerà a germinare. Ed è in questa capacità di far attecchire un pensiero, più che nel racconto stesso, che risiede la sua necessità. Il teatro diventa ciò che deve essere: non un rifugio, ma una scossa. Photocredit Ilena Landi