Roma, Teatro Vascello
VAOTOURS (AVVOLTOI)
di Roberto Serpi
interpretato e diretto da Sergio Romano, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati
luci Luca Bronzo
produzione Fondazione Teatro Due, Parma
Premio Mezz’ore d’Autore 2022
Roma, 28 settembre 2025
C’è un’immagine che si impone subito: tre uomini chiusi in una tana, come bestie ferite che non trovano più la via del ritorno. È l’impressione primaria che lascia Vautours (Avvoltoi), scritto, diretto e interpretato da Roberto Serpi insieme a Sergio Romano e Ivan Zerbinati, produzione del Teatro Due di Parma approdata al Vascello di Roma. Non è una vicenda ambientata in spazi sotterranei, eppure lo spettatore, alla fine, ha la sensazione di riemergere da un ipogeo, da un cunicolo oscuro in cui l’aria ristagna e il tempo si è contratto in un’ossessione.
Tre uomini licenziati, tutti di mezza età, vivono lo smarrimento di chi è stato improvvisamente estromesso da un ordine produttivo che li aveva resi marginali, invisibili, prima ancora di abbandonarli del tutto. Sono soli, senza legami né sostegni: né famiglie, né amici, né tantomeno organizzazioni sindacali o politiche. La loro solitudine non viene dichiarata, è semplicemente la condizione naturale entro cui si muovono, un dato esistenziale che la scena essenziale – una sedia, un tavolino, un vecchio telefono a disco – restituisce con precisione chirurgica. Proprio quel telefono, un Siemens S62, diventa la quarta presenza in scena: ogni suo squillo provoca uno scarto narrativo, un colpo di senso che incrina la routine dei tre uomini. Negli anni Sessanta e Settanta quell’oggetto apparteneva a un tempo in cui esisteva ancora una dialettica tra capitale e lavoro, quando per licenziare occorreva almeno pronunciare la parola. Ora invece basta un artificio normativo, una manovra burocratica, una firma che dissolve vite e identità. È interessante notare come il telefono, pur senza intenzionalità simbolica, evochi una memoria collettiva: i diritti che si sono via via dissolti, la negoziazione sostituita da silenzi e complicità, l’illusione di un dialogo che non arriverà. Non c’è traccia di un modello brechtiano in Vautours.
Non si analizzano i meccanismi del lavoro contemporaneo né si tenta una spiegazione razionale delle ingiustizie. Qui la ferocia sociale si incarna direttamente nei corpi e nelle voci degli attori, si traduce in gesti farseschi, in piani di rivincita grotteschi, in dialoghi che oscillano tra l’assurdo e il cabaret. Serpi, con la sua presenza greve e minacciosa, Romano, con il rigore impiegatizio che nasconde una violenza trattenuta, e Zerbinati, con la sua ingenuità infantile e le filastrocche cantilenanti, formano un trio che oscilla continuamente tra tragicità e ridicolo, in una tensione costante che impedisce allo spettatore di trovare un appoggio emotivo stabile. La vicenda procede come un gioco crudele. Uno dei tre riesce, per caso, a rimettere piede nell’azienda, chiamato a sostituire un collega assente. Da questa minima apertura nasce il delirio logico degli altri due: se la sola possibilità di rientrare è coprire le assenze, allora bisogna crearle. E il ragionamento si traduce in un piano tanto surreale quanto atroce: colpire fisicamente i possibili candidati, produrre le condizioni del vuoto da riempire. È la deriva di un pensiero che si è spogliato di ogni etica, ridotto a un meccanismo di sopravvivenza cieco, senza più alternative né immaginazione. Lo spettacolo non offre soluzioni, né consolazioni. Nemmeno la fuga verso il mito del “ricominciare da zero” – allevando api o rifugiandosi in un borgo appenninico – viene contemplata. Tutto ciò che i media propongono come possibilità di rinascita qui non esiste.
I tre uomini restano inchiodati in un presente che li ha già superati, e le loro strategie non sono altro che caricature di un riscatto impossibile. La messinscena di Serpi si affida a una nuda essenzialità: niente musiche, niente proiezioni, nessun effetto. È la parola, secca, incalzante, a scandire il ritmo. E soprattutto è l’energia degli attori, la loro capacità di mantenere costante la tensione drammatica, a far vivere la vicenda in tutta la sua ambiguità. Non c’è mai compiacimento, non c’è mai caduta nel grottesco fine a sé stesso: il gioco scenico rimane sempre sorvegliato, guidato da un equilibrio che consente alla crudeltà della storia di rivelarsi con lucidità e senza compiacimenti. Un aspetto rilevante è anche la genesi del progetto. Nato quasi per caso, da una lettura in camerino durante una pausa di un altro spettacolo, Vautours è stato poi prodotto dal Teatro Due grazie alla fiducia di Paola Donati. Questa origine “artigianale” conferisce al lavoro una qualità particolare: non la rigidità di un apparato produttivo imponente, ma l’urgenza di un desiderio nato tra gli attori stessi, che hanno voluto trasformare un testo in una prova scenica concreta. È un esempio raro di come la nuova drammaturgia possa trovare spazio se sostenuta da scelte produttive attente e coraggiose. Alla fine resta l’immagine di tre uomini senza più speranza, che trasformano il bisogno in crudeltà, l’isolamento in follia. Non c’è nulla di edificante in questa parabola: è piuttosto la rappresentazione di un vuoto, di un’assenza di futuro che divora tutto. Ed è proprio questo vuoto a rendere lo spettacolo perturbante. Non tanto la violenza, non tanto le derive assurde dei personaggi, ma la constatazione che in fondo non c’è alternativa, non c’è un altrove cui aspirare. Con la sua asciuttezza formale e la sua forza interpretativa, Vautours (Avvoltoi) si impone come un segnale di quanto il teatro possa ancora farsi luogo di verità scomoda: non una denuncia, non un pamphlet politico, ma la restituzione di un’inquietudine collettiva che ci riguarda tutti.
Roma, Teatro Vascello: “Vaotours (Avvoltoi)”