Roma, Museo delle Civilità
ELISA MONTESSORI: IL SOGNO DELLA CAMERA ROSSA
a cura di Alessandra Mammì ed Andrea Vilian
organizzata dal Museo delle Civiltà (MUCIV)
con il sostegno del Piano per l’Arte Contemporanea 2024 (PAC)
promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
Roma, 03 ottobre 2025
La natura non è un insieme di parti, ma un organismo che respira. Ogni foglia porta in sé l’albero intero, ogni goccia custodisce il mare, ogni soffio racchiude il ritmo del cosmo. Ciò che vediamo è solo il velo, mentre sotto scorrono forze invisibili che incessantemente generano. Dentro questa prospettiva si colloca l’opera di Elisa Montessori, raccolta al Museo delle Civiltà di Roma nella mostra Il sogno della camera rossa.
La sua arte non descrive, ma rivela. Non costruisce forme per fissarle, ma lascia che siano processi. Ogni immagine è soglia, sospensione, varco aperto sul mistero. Il titolo rimanda al romanzo incompiuto di Cao Xueqin, dove la camera rossa custodisce il mondo femminile, microcosmo fragile e vitale, opposto al crollo del patriarcato. Anche in questi lavori il femminile non è categoria, ma principio originario: figure che affiorano da velature, trame di linee che si intrecciano come pensieri segreti, immagini che custodiscono memorie invisibili. È una forza generatrice che accoglie, protegge e trasforma. Il romanzo non giunge a compimento, e proprio lì trova la sua potenza. Così anche le opere di questa artista non si chiudono mai: restano sospese, pronte a mutare nello sguardo di chi osserva.
L’incompiuto non è difetto, ma respiro: il segno di una vita che non vuole concludersi, ma aprirsi. È l’invito a condividere, non a possedere. Come nel libro, il sogno diventa struttura. Le immagini sembrano provenire da un altrove, si stratificano e si dissolvono, si ricompongono in apparizioni sempre nuove. È il territorio liminare tra veglia e visione, dove il reale si lascia attraversare dalle forze dell’invisibile. Chi cammina tra superfici dipinte, tessere luminose e fragili carte percepisce di trovarsi in uno spazio sospeso, come in una stanza che conserva un segreto non rivelato. La fragilità è parte della sua lingua poetica. La cronaca dei Jia è storia di decadenza; i lavori custoditi al museo parlano di materie sottili, di pigmenti che respirano, di carte pronte a disfarsi. Tutto è destinato a svanire, eppure proprio in questa caducità si rivela la bellezza. Non è la forza a rendere eterno, ma il perire che si trasforma.
L’eternità non è fissità, ma metamorfosi. Anche la parola e l’immagine si rispecchiano l’una nell’altra. Nel romanzo la poesia è vita quotidiana; nell’opera dell’artista la scrittura diventa segno, e il segno assume la forza della scrittura. È un alfabeto nuovo, che non distingue tra ciò che si legge e ciò che si vede, ma riconduce entrambi a un’unica sorgente. Il destino, poi, è sempre presente. Nel libro la pietra magica annuncia dall’inizio ciò che deve accadere. Nei lavori dell’artista ogni linea appare come parte di una rete più vasta, trama di forze che uniscono visibile e invisibile. Il gesto singolo si innesta in un ordine più grande, che non appartiene al caso ma alla legge profonda del cosmo. Esporre al MUCIV significava affrontare non uno spazio neutro, ma un luogo carico di memorie e civiltà. Non un fondale asettico, ma un organismo stratificato. Qui l’opera poteva soccombere, schiacciata dal peso della storia. E invece ha saputo rispondere. Le carte sottili hanno dialogato con i tessuti antichi, i frammenti contemporanei hanno trovato eco negli smalti e nei reperti rituali. Non contrasto, ma risonanza.
L’artista non impone: intreccia, trasformando il museo in un corpo vivo che respira insieme alle sue forme. Il suo percorso creativo attraversa più linguaggi. Pittura, collage, tessere, superfici materiche: tutto è parte di una medesima partitura. Ovunque domina l’incompiuto. Nei tasselli irregolari si accende il ritmo, nei fogli leggeri una piega diventa segno, nelle forme plastiche la rudezza della materia non viene levigata ma esaltata. L’imperfezione non è errore, ma apertura verso ciò che verrà. Centrale è il segno del vento. È respiro che percorre le superfici, che sfiora i materiali, che attraversa fragili trasparenze. È la forza invisibile che anima la materia. E insieme agisce il vuoto, non come assenza ma come grembo generativo. È lo spazio che permette alla forma di respirare, il ritmo che dilata lo sguardo e lo conduce oltre i confini. Emblematica è l’opera Paesaggio della Manciuria, recentemente acquisita dal Museo. Qui astrazione e figurazione si intrecciano come due correnti che scaturiscono dalla stessa fonte. Terre lontane emergono come apparizioni e subito si dissolvono, lasciando allo spettatore la possibilità di proseguire la tessitura, di farsi parte attiva della metamorfosi.
Il cammino dell’artista è sempre stato libero, estraneo a scuole e movimenti. Una ricerca fedele a se stessa, capace di rinnovarsi senza perdere coerenza, in cui ogni opera è processo e non compimento. Chi attraversa la mostra non incontra oggetti isolati, ma un unico paesaggio interiore. Tutto respira insieme: frammenti, carte, superfici, tessere, materiali fragili e resistenti che si tengono come membra di un organismo unitario. È come camminare in un giardino segreto, fatto di segni che mutano senza mai fissarsi del tutto. L’opera non vive sulla superficie che si osserva, ma nello sguardo che la incontra. È l’occhio a completarla, a darle corpo, a farla mutare. Il visitatore non è spettatore passivo, ma creatore silenzioso, che porta con sé il segno e lo trasforma. E qui si rivela la verità più radicale: l’arte non è ciò che resta fissato, ma ciò che continua a generarsi nello spazio invisibile tra forma e sguardo, tra gesto e coscienza. È il luogo in cui il tempo non finisce, il sogno non si spegne e la bellezza non si compie mai del tutto, perché vive soltanto nella metamorfosi continua. Photocredit Giorgio Benni / Margherita Villani
Roma, Museo delle Civiltà: “Elisa Montessori: Il sogno della camera rossa”