Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
INDOVINA CHI VIENE A CENA?
di William Arthur Rose
Adattamento di Mario Scaletta
Matt Drayton CESARE BOCCI
Cristina Drayton VITTORIA BELVEDERE
Padre Ryan MARIO SCALETTA
John Prentice FEDERICO LIMA ROQUE
July ELVIRA CAMARRONE
Sig. Prentice THILINA PIETRO FEMINÒ
Sig.ra Prentice IRA NOEMI FRONTEN
Tillie FATIMA ROMINA ALÍ
Scenografia Fabiana Di Marco
Costumi Graziella Pera
Musiche Massimiliano Pace
Regia Guglielmo Ferro
Acast Produzioni
Roma, 17 ottobre 2025
Ci sono testi che non chiedono di essere reinventati, ma di essere ascoltati di nuovo. Indovina chi viene a cena? di William Arthur Rose è uno di questi: un dramma di conversazione travestito da commedia civile, che non parla solo del razzismo degli anni Sessanta, ma di una malattia più sottile e universale — la paura di mettere in discussione se stessi.
Nel nuovo allestimento diretto da Guglielmo Ferro, il testo torna alla sua natura originaria: un’analisi morale nascosta sotto il linguaggio del quotidiano. Ferro non forza, non aggiorna, non tradisce. Sceglie la via più difficile: la misura. Evoca il film di Stanley Kramer senza inseguirlo, rifiutando l’emulazione e la scorciatoia del modernismo. La sua è una regia d’ascolto e d’attesa, costruita sul ritmo dei dialoghi e sulla sospensione del gesto. Ogni parola è calibrata, ogni pausa diventa respiro drammatico. È un teatro che non alza la voce, ma scava. Eppure, questa compostezza — così onesta, così controllata — ha il rischio di diventare un rifugio. La tensione non esplode mai del tutto: rimane compressa, educata, come un conflitto che la borghesia sa nominare ma non affrontare. Ferro tiene tutto dentro i confini della grazia, ma è proprio in quella grazia che il suo spettacolo trova senso. Non vuole convertire, vuole osservare. Non vuole scuotere, ma riflettere. E in un tempo che confonde la violenza con la verità, questo gesto di pudore diventa, paradossalmente, politico. La scenografia di Fabiana Di Marco disegna un interno borghese con la precisione di un orologio: un salotto nitido, geometrico, percorso da luci che oscillano fra tepore e minaccia. È uno spazio in cui la simmetria non tranquillizza ma imprigiona. L’adattamento di Mario Scaletta, autore anche del ruolo di Padre Ryan, lavora con discrezione, lasciando che la contemporaneità filtri dalle relazioni, non dalle parole. Le differenze oggi non sono più di razza, ma di linguaggio, di sensibilità, di tempo interiore: una borghesia che parla la stessa lingua e non si capisce più.
Nel ruolo di Matt Drayton, Cesare Bocci costruisce una figura di grande precisione tecnica. Recita nel margine, tra controllo e resa, e trova nella pausa il luogo del pensiero. È un attore che sa far parlare il silenzio, e che usa l’ironia come scudo morale. La sua interpretazione, fatta di sottrazioni e microscopiche oscillazioni vocali, rende visibile la fatica del dubbio. Vittoria Belvedere, nei panni di Cristina, è la parte luminosa dello spettacolo: lavora per leggerezza e ascolto, non per dichiarazione. La sua presenza trasforma la scena in uno spazio d’accoglienza, non di scontro. È lei, più di chiunque altro, a incarnare la possibilità del cambiamento. Federico Lima Roque, nel ruolo di John Prentice, offre una prova sobria e composta, ma talvolta trattenuta. Il corpo resta chiuso, la voce controllata, la tensione sempre misurata: un’eleganza che diventa, a tratti, prudenza. Si avverte la volontà di non eccedere, ma anche un limite nel lasciare che l’emozione si apra davvero. Elvira Camarrone, nella parte di July, è sincera, energica, vitale, ma ancora acerba: il suo entusiasmo scenico non sempre trova il peso della verità interiore. Mario Scaletta, nel doppio ruolo di drammaturgo e attore, restituisce al Padre Ryan una leggerezza che alleggerisce la densità del dialogo, portando un tono umano e ironico che funziona. I genitori di John, Thilina Pietro Feminò e Ira Noemi Fronten, si inseriscono con efficacia nel tessuto drammaturgico, pur restando più accennati che definiti: sono la parte speculare del pregiudizio, la voce che ricorda come la diffidenza non abbia mai un solo colore. Fatima Romina Alí, nel ruolo di Tillie, offre una presenza misurata e silenziosa, quasi una coscienza laterale che accompagna l’azione senza sovraccaricarla.
Nel complesso, lo spettacolo è una macchina ben calibrata, retta da una regia che preferisce la coerenza al rischio e la chiarezza alla passione. Ferro costruisce un teatro etico, ma non militante; elegante, ma non sterile. È un lavoro che vive nel confine tra il decoro e la verità. Funziona. Nel finale, quando la famiglia si accinge ad andare a tavola, la scena si ammorbidisce e finalmente respira. Dopo un lungo trattenere, qualcosa si scioglie: non un perdono, ma una tregua. Le luci si fanno più calde, la musica si distende, e quel gesto — semplice, domestico, quasi banale — diventa improvvisamente vero. Non è catarsi, ma riconciliazione provvisoria, e proprio per questo autentica. È qui che la regia di Ferro funziona pienamente: nell’abbandono del conflitto, nel pudore di un gesto che non risolve ma riconosce. Il pubblico, che ha seguito con attenzione e rispetto ogni sfumatura, tributa un lungo e convinto applauso. Qualcuno cita il film — chi con un sorriso nostalgico, chi sottovoce, come un ricordo personale. Tutti, però, escono con la stessa sensazione: quella di aver trascorso una serata piacevole, lieve, pur dentro a un tema che leggero non è. Ed è questo, in fondo, il senso più alto del teatro: saper alleggerire anche ciò che pesa, restituendo alla riflessione la grazia del piacere condiviso.