Napoli, Teatro Bellini:DONALD. Storia molto più che leggendaria di un Golden Man”

Napoli, Teatro Bellini, Stagione 2025/26
“DONALD. STORIA MOLTO PIÙ CHE LEGGENDARIA DI UN GOLDEN MAN”
Di e con Stefano Massini
Scene Paolo Di Benedetto
Disegno luci Manuel Frenda
Costumi Elena Bianchini
Musiche Enrico Fink eseguite da Valerio Mazzoni, Sergio Aloisio Rizzo, Jacopo Rugiadi, Gabriele Stoppa
Produzione Fondazione Teatro della Toscana

Napoli, 22 ottobre 2025
Al Teatro Bellini, arriva Donald J. Trump con DONALD. Storia molto più che leggendaria di un Golden Man: una pièce teatrale dal tono favolistico, portata – sul palcoscenico del teatro napoletano – dal suo autore, Stefano Massini: scrittore-drammaturgo-narratore, che riesce a rivestire di interessante teatralità ciò che potrebbe apparire soltanto come un’esposizione di dati biografici, quelli riguardanti, cioè – in modo particolare –, l’infanzia e gli anni giovanili del futuro Presidente degli Stati Uniti d’America. Lo spettatore, sorridendo, si ritrova, pertanto, a ravvisare nelle vicende di quel «Golden Baby», prima, e «Golden Boy», dopo, l’esordio di un «Golden Man» in erba. Il carattere «documentaristico» del lavoro teatrale è evidente, ma al di là della natura «aneddotica» del materiale biografico in sé – adoperato per la costruzione del testo –, convince anche l’edificazione scenico-drammaturgica della pièce teatrale, effettuata da Massini. DONALD è la rappresentazione di un’«impresa» imprenditoriale e politica, il cui tono ironico consente al testo di poter godere di una gradevole «leggerezza», attraverso cui avviene l’esposizione dei fatti. Il materiale letterario di carattere aneddotico-biografico conserva, dunque, un’importanza «documentaristica», e il tono ironico – attraverso cui avviene l’illustrazione delle vicende – consegna la pièce teatrale a un felice e interessante «ibridismo» di genere: un documentario teatrale e favolistico; un «seminario» recitato, che – in novantacinque minuti – offre un ritratto esaustivo del giovane Trump: «Luca Ronconi – afferma Massini, in un’intervista (il cui testo è stato raccolto da Matteo Brighenti) – quando parlava della mia scrittura, […] diceva: a un certo punto smette di essere sceneggiatura cinematografica e diventa un saggio, poi da saggio diventa chanson de geste, e da chanson de geste diventa docufiction». Il narratore, pertanto, riesce a restituire, attraverso un racconto fatto di immagini suggestive, il mondo entro cui accadono i fatti: viene evocato il «rosso della carta da parati», interessata dalla presenza di fotografie di famiglia, della casa natale del futuro «Golden Man»; vengono evocati, e impersonati dal narratore medesimo, Fred e Mary Anne Trump, padre e madre di Donald J.; viene evocata la tata, che, sempre impersonata dal narratore, appare contraria alla presenza nell’abitazione della televisione: un perfetto «medium di massa», per dirla con Pasolini; un mezzo, dunque, attraverso cui poter attrarre e attirare a sé un enorme popolo di «formiche»: quel popolo che «è con me», afferma, con tono ironicamente solenne, il protagonista, che – in questa pièce teatrale – appare anche estremamente attratto dalla riproduzione e dalla moltiplicazione della sua immagine: il talento di una strumentale «ubiquità», che il personaggio tenta di raggiungere e di attribuire a sé, in netto contrasto con un altro talento, che egli afferma di possedere: il talento della solitudine – attraverso cui poter consolidare un ambizioso progetto politico; una solitudine, che, in questo contesto, assume la forma di una soprannaturale, ma ironica, «unicità». «Ma il Donald di Massini – scrive Gennaro Carillo in uno scritto, inserito nel numero 46 del Belliner, magazine del teatro napoletano, – è soprattutto la storia di un’ossessione, di un desiderio smodato di potere». Una rappresentazione che consente all’autore-narratore anche di parlare allo spettatore di come il potere riesca a «conservare soltanto se stesso». Il carattere generale del testo è, dunque, documentaristico; esso, però, è interessato da repentine e recitate digressioni: «interferenze improvvise», così vengono definite da Luca Ronconi – come, peraltro, ricorda Massini nella summenzionata intervista. L’inarrestabile presenza di digressioni determina il carattere apparentemente «frammentario» della composizione testuale; apparente, ripetiamo, e inavvertibile, perché risolto attraverso un ritmo scenico, gestuale e vocale notevolmente spedito. Un monologo, ma tale soltanto in apparenza, perché la composizione testuale si ritrova a colloquiare con altre composizioni, quelle musicali: quattro validissimi musicisti – Valerio Mazzoni, Sergio Aloisio Rizzo, Jacopo Rugiadi, Gabriele Stoppa – sostengono e supportano l’efficace eloquio del narratore-attore e l’esposizione del materiale testuale, proponendo le interessanti musiche swing di Enrico Fink; musiche che travolgono gli spettatori, e concorrono alla creazione dell’atmosfera «americana» della rappresentazione teatrale e delle vicende raccontate, la cui caratterizzazione avviene anche attraverso un minimale impianto scenico, progettato da Paolo Di Benedetto: un’irregolare e grigia serie di gradoni – da cui spuntano, all’occorrenza, colorati cartelli: sintetiche restituzioni sceniche di costruzioni varie: dalla Trump Tower al Trump Taj Mahal. Il tutto nitidamente e opportunamente illuminato da Manuel Frenda. I costumi, di Elena Bianchini, sono in perfetta tinta con il grigio della scena. In definitiva: una pièce teatrale estremamente interessante, positivamente accolta dal pubblico napoletano. Foto Filippo Manzini