Roma, Auditorium Parco della Musica, Sala Santa Cecilia : “Die Walküre”

Roma, Auditorium Parco della Musica – Sala Santa Cecilia, Stagione 2025
“DIE WALKÜRE”
Prima giornata del ciclo Der Ring des Nibelungen
Libretto e musica di Richard Wagner
Siegmund JAMEZ McCORKLE

Sieglinde VIDA MIKNEVIČIŪTĖ
Hunding STEPHEN MILLING
Brünnhilde MIINA-LIISA VÄRELÄ
Wotan MICHAEL VOLLE
Fricka OKKA VON DER DAMERAU
Gerhilde SONJA HERANEN
Ortlinde HEDVIG HAUGERUD
Waltraute CLAIRE BARNETT-JONES
Schwertleite CLAUDIA HUCKLE
Helmwige DOROTHEA HERBERT
Siegrune VIRGINIE VERREZ
Grimgerde ANNA LAPKOVSKAJA
Rossweisse ŠTĚPÁNKA PUČÁLKOVÁ
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Direttore Daniel Harding

Regìa Vincent Huguet
Impianto scenico Pierre Yovanovitch
Costumi Edoardo Russo
Luci Christophe Forey
Direttore allestimenti scenici Michele Olcese
Nuovo allestimento dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Roma, 27 ottobre 2025
C’è qualcosa di profondamente europeo, e dunque di eternamente attuale, nel modo in cui Die Walküre risuona a Roma. Wagner, come un architetto del pensiero, erige cattedrali di suono dove la fede non è più religiosa ma estetica. È stato un evento che ha superato la dimensione dell’allestimento per assumere quella del rito: una meditazione sull’origine e sul destino del suono, concepita come un atto di fede nella forza mitopoietica della musica. La scena, ideata da Pierre Yovanovitch, si dispiega in un paesaggio di luce e di geometrie pure: scale, varchi e superfici bianche che non imitano ma suggeriscono. Nulla di descrittivo, tutto allusivo. È una topografia mentale, una proiezione dell’interiorità del dramma. La regia di Vincent Huguet, priva di orpelli, procede per gesti misurati, riducendo la narrazione a essenza simbolica. I costumi atemporali di Edoardo Russo inscrivono i personaggi in una dimensione sospesa, dove l’eroe e il dio sono forme dell’idea più che figure della storia. La luce, disegnata da Christophe Forey, modella lo spazio come una sostanza viva, trasforma l’ombra in architettura e accompagna la metamorfosi del mito in pensiero. Su questo impianto visivo, la direzione di Daniel Harding agisce come principio ordinatore. Fin dall’introduzione, il suono nasce da un silenzio denso, quasi geologico: gli archi bassi costruiscono un sostrato tellurico da cui si levano, come vapori di coscienza, i motivi generativi della partitura. Harding concepisce la musica di Wagner come un organismo che respira; ne segue le pulsazioni, i moti interni, fino a renderne percepibile la struttura profonda. La sua lettura è lucida e insieme visionaria, tesa non a monumentalizzare ma a chiarire. Ogni elemento trova collocazione in un disegno di perfetto equilibrio dinamico, dove la massa orchestrale non travolge mai la linea vocale ma la avvolge, come un pensiero che precede la parola. Nel primo atto, la tempesta iniziale non è solo paesaggio, ma proiezione dell’inquietudine: gli archi ribollono di tensione, i legni disegnano spire d’aria, gli ottoni emergono come lampi dell’inconscio. Quando Siegmund incontra Sieglinde, la tessitura orchestrale si schiarisce, i violoncelli cantano una melodia che sembra appartenere più alla memoria che all’azione. Harding modula i tempi con naturalezza respiratoria, lascia che i temi si dilatino, evitando ogni enfasi. Nel duetto dei gemelli, l’orchestra si fa corpo sensibile: i corni e le arpe intrecciano una trama di desiderio e fatalità, e in quel flusso continuo si manifesta la qualità melodica di Wagner, spesso fraintesa come pura grandiosità. Harding, invece, la restituisce come pensiero che diviene canto, come idea che prende forma nel suono. Nel secondo atto, il confronto tra Wotan e Fricka è condotto con una chiarezza che potremmo definire beethoveniana. Gli ottoni sono solenni e tragici, gli archi restano tesi come corde morali: la musica si trasforma in tribunale interiore, specchio della colpa e del potere. Daniel Harding equilibra la densità orchestrale con una trasparenza quasi cameristica, così che ogni Leitmotiv si manifesti come riflesso e non come marchio tematico. Il terzo atto è una costruzione di pura energia. La celebre Cavalcata delle Valchirie non esplode ma ruota su sé stessa, come un vortice misurato, dove il ritmo diviene forma. L’orchestra avanza per onde progressive, fino al silenzio sospeso del commiato finale. Nel dialogo tra Wotan e Brünnhilde, Harding allenta il tempo fino all’immobilità, e la progressione armonica che accompagna il sonno della dea diventa un gesto di pietà cosmica. Le arpe, liquide e trasparenti, dissolvono il suono in un chiarore quasi mistico: il fuoco che circonda la roccia è ormai luce interiore. L’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia risponde con precisione e fervore. Gli archi hanno un colore brunito e flessibile, i legni una limpidezza di cristallo, gli ottoni un’ampiezza controllata che evita ogni retorica. È un Wagner di straordinaria pulizia timbrica, che rivela la polifonia segreta della partitura e ne rispetta la necessità drammatica. Il cast appare coerente con questa visione. Jamez McCorkle è un Siegmund di voce ampia e nobile, costruita sul respiro lungo e sul controllo della linea. Vida Miknevičiūtė porta a Sieglinde una luminosità trasparente, con un fraseggio che sa unire fragilità e ardore. Michael Volle, Wotan di autorità pensosa, canta come chi conosce la propria rovina; la sua voce scura, rotonda, è al servizio della parola e non della forza. Okka von der Damerau plasma una Fricka di rigore e di dolore, dove la potenza non cancella la lucidità. Miina-Liisa Värelä, Brünnhilde di timbro radioso e metallico, alterna slancio eroico e introspezione, mentre Stephen Milling dà a Hunding la pesantezza inesorabile dell’antico diritto. Le Valchirie — Sonja Herranen, Hedvig Haugerud, Claire Barnett-Jones, Claudia Huckle, Dorothea Herbert, Virginie Verrez, Anna Lapkovskaja, Štěpánka Pučálková — costituiscono un coro perfettamente bilanciato, di impasto compatto e ritmo preciso, più scultura sonora che scena d’azione. L’insieme produce un effetto di compostezza e di vertigine. L’allestimento di Huguet e la direzione di Harding si incontrano in un medesimo principio: la musica come atto di conoscenza, il mito come figura del pensiero. Nulla è ridondante, nulla spettacolare; ogni gesto tende alla misura, ogni suono alla rivelazione. Wagner, a Roma, ritrova la sua dimensione originaria: non quella del monumento, ma quella del mistero. Ph MUSA Accademia Santa Cecilia