Roma, Centrale Montemartini, Musei Capitolini
“MARIA BAROSSO. ARTISTA E ARCHEOLOGA NELLA ROMA IN TRASFORMAZIONE”
A cura di Angela Maria D’Amelio, Maurizio Ficari, Manuela Gianandrea, Ilaria Miarelli Mariani, Domenico Palombi
Promossa da Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali in collaborazione con Sapienza Università di Roma
Organizzazione Zètema Progetto Cultura
Roma, 16 ottobre 2025
L’atto del ricordare non è mai innocente. Conservare, anche soltanto con un gesto apparentemente umile come quello del disegno, implica sempre una scelta: decidere cosa sottrarre all’oblio e cosa lasciare scivolare nel gorgo del tempo.
È questo il presupposto silenzioso della mostra Maria Barosso. Artista e archeologa nella Roma in trasformazione, che dal 17 ottobre 2025 al 22 febbraio 2026 occuperà gli spazi della Centrale Montemartini, sede dei Musei Capitolini. Un’esposizione che si muove come un’operazione di archeologia della memoria, riportando alla luce una figura che fu insieme occhio e mano della città mentre Roma mutava volto nei primi decenni del Novecento. Maria Barosso, nata a Torino nel 1879 e morta a Roma nel 1960, fu una disegnatrice e pittrice che seppe collocarsi in una posizione liminale: né semplice artista né mera funzionaria, ma qualcosa di più complesso, una sorta di “scriba figurativa” chiamata a registrare ciò che stava per svanire. All’interno della Direzione Generale Antichità e Belle Arti del Ministero della Pubblica Istruzione, lavorò come disegnatrice ufficiale, documentando con acquerelli a colori monumenti, scavi e cantieri della Soprintendenza di Roma e del Lazio. Nel pieno della stagione degli sventramenti, delle demolizioni ottocentesche e dei grandi restauri che accompagnarono la modernizzazione della Capitale, Barosso fu l’unica donna ammessa a lavorare accanto agli archeologi nei luoghi dove la storia veniva dissezionata. Il suo lavoro, tutt’altro che ancillare, divenne parte integrante del processo conoscitivo: dove la fotografia in bianco e nero restituiva solo la superficie, lei sapeva leggere la trama delle ombre e dei pigmenti, ricostruendo non solo ciò che appariva, ma ciò che era già in procinto di sparire.
Nei suoi fogli non c’è soltanto l’immagine degli affreschi e dei mosaici che rappresentava, ma anche la loro condizione: le fessure, le cadute di colore, le lacune. Sono documenti che non idealizzano, ma testimoniano. L’arte di Barosso non vuole eternare: vuole ricordare esattamente, come chi sa che la bellezza, per essere salvata, va guardata anche nelle sue fratture. La mostra alla Centrale Montemartini costruisce attorno a questo gesto una narrazione stratificata, dove le opere della Barosso vengono messe in dialogo con fotografie d’epoca, documenti amministrativi, disegni e dipinti di artisti coevi, oltre a manufatti storici legati ai luoghi che lei rappresentò. L’obiettivo non è solo restituire un corpus dimenticato, ma mostrarne la funzione all’interno di un sistema più ampio di produzione e conservazione del sapere. Le sue tavole, provenienti in gran parte dai depositi della Sovrintendenza Capitolina e del Museo di Roma a Palazzo Braschi, sono affiancate da prestiti di istituzioni come l’Archivio Storico del Museo Nazionale Romano presso Palazzo Altemps, il Parco Archeologico del Colosseo, il Vicariato di Roma e la Fondazione Camillo Caetani. Colpisce, percorrendo il tracciato espositivo, la tensione costante tra rigore e interpretazione.
Barosso operava con una meticolosità filologica che le consentiva di rendere con precisione millimetrica i dettagli decorativi, le proporzioni architettoniche, i moduli dei mosaici, ma allo stesso tempo lasciava trapelare una sensibilità pittorica fatta di sfumature, ombre, vibrazioni cromatiche che trasformano le sue tavole in opere autonome. Non sono copie né fantasie: sono l’interstizio dove la documentazione diventa visione, dove il dato si carica di tempo. In questo senso, il suo lavoro non fu mai neutrale: era un’interpretazione, e proprio per questo resta vivo. Emblematica, e giustamente valorizzata in mostra, è la serie di acquerelli dedicati agli affreschi della Villa dei Misteri a Pompei, commissionati negli anni Venti dall’archeologo statunitense Francis W. Kelsey. In quei fogli, oggi conservati al Kelsey Museum dell’Università del Michigan, Barosso riesce a restituire la saturazione cromatica, i panneggi, i ritmi decorativi di un ciclo pittorico che già allora mostrava segni di degrado, offrendo un riferimento prezioso che ancora oggi guida studiosi e restauratori.
Non si tratta soltanto di belle immagini: sono mappe della memoria, strumenti conoscitivi che permettono di confrontare lo stato presente con quello passato e, così, comprendere la misura delle perdite. L’esposizione, curata da Angela Maria D’Amelio, Maurizio Ficari, Manuela Gianandrea, Ilaria Miarelli Mariani e Domenico Palombi, restituisce anche la dimensione storica della sua carriera come una delle prime funzionarie donne del Ministero della Pubblica Istruzione. La sua presenza nei cantieri, allora dominati da uomini, fu un’anomalia tollerata solo grazie all’evidenza del talento e della competenza. Eppure, dopo la morte nel 1960, il suo nome scomparve rapidamente dalla memoria pubblica, come se la sua opera fosse destinata a proteggere la visibilità degli oggetti e non la propria. Ciò che emerge da questa mostra è invece la centralità della sua figura all’interno della costruzione dell’identità visiva della Roma moderna. Senza i suoi acquerelli, molte decorazioni oggi perdute o profondamente alterate sarebbero conosciute solo attraverso fotografie piatte e mute. Lei ne ha conservato la luce, e con essa il senso stesso di continuità fra le epoche.
Non si tratta di un contributo ornamentale alla disciplina, ma di un atto fondativo: Barosso ha fornito le immagini attraverso cui Roma si è raccontata a se stessa mentre cambiava. L’allestimento alla Centrale Montemartini rende percepibile anche questa dimensione temporale, disponendo le opere come pagine di un diario urbano che attraversa demolizioni, restauri, scoperte. Non vi è nostalgia, ma una lucida consapevolezza: il tempo non può essere fermato, ma può essere compreso se si lascia traccia di ogni sua ferita. Ed è forse questa la più grande lezione di Barosso: che la tutela non coincide con il conservare immobile, ma con il capire ciò che muta. In un’epoca in cui la memoria tende a farsi immagine istantanea e superficiale, riportare alla luce il lavoro di chi invece operava nella lentezza, nella precisione e nella responsabilità appare non solo doveroso, ma necessario. Ricordare, sembra suggerire ogni suo acquerello, non è ripetere: è capire.
Roma, Centrale Montemartini, Musei Capitolini: “Maria Barosso. Artista e archeologa nella Roma in trasformazione”