Roma, Mercati di Traiano: “1350. Il Giubileo senza papa”

Roma, Mercati di Traiano
1350. IL GIUBILEO SENZA PAPA
curata da Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Massimiliano Munzi e Simone Pastor
promossa da Roma Capitale con la Sovrintendenza Capitolina
organizzata da Zètema Progetto Cultura
Roma, 08 ottobre 2025
Ogni città ha un momento in cui si ritrova sola con la propria storia. Per Roma, quel momento fu il 1350, quando il papa, lontano ad Avignone, lasciò l’Urbe a se stessa e la città, come un organismo rimasto senza cuore, scoprì di poter continuare a vivere grazie al respiro profondo delle sue pietre. In quell’anno si celebrò il secondo Giubileo della cristianità, un Anno Santo senza pontefice, che nonostante l’assenza della Curia e il peso delle pestilenze divenne un trionfo di fede e sopravvivenza civile. La mostra “1350. Il Giubileo senza papa”, ai Mercati di Traiano – Museo dei Fori Imperiali (9 ottobre 2025 – 1° febbraio 2026), curata da Claudio Parisi Presicce, Nicoletta Bernacchio, Massimiliano Munzi e Simone Pastor, restituisce quella stagione sospesa, quando Roma, privata del proprio vertice, si fece corpo collettivo, anima diffusa, città che resiste e ricomincia. Visitare questa mostra significa attraversare un secolo lacerato e febbrile, in cui l’assenza del potere diventa strumento di conoscenza. Non si raccontano soltanto opere – statue, manoscritti, epigrafi, sigilli, reliquie – ma il processo con cui la città trasformò la mancanza in forza, l’esilio del papa in occasione di rifondazione. Ogni frammento è un sintomo, ogni reperto un pensiero sulla sopravvivenza. Il Medioevo romano vi appare non come un’epoca chiusa, ma come una condizione permanente: fragile, instabile, perennemente minacciata dalla rovina, ma sempre capace di rinascita. La figura di Bonifacio VIII, artefice del primo Giubileo del 1300, emerge come l’eco lontana di un’idea di universalità ormai in crisi. Nella Roma del Trecento, il suo nome sopravvive sulle misure per olio e vino, strumenti pubblici che rivelano l’intreccio fra autorità religiosa e amministrazione comunale. È il segno di una civiltà che unisce liturgia e commercio, fede e misura, corpo e spirito. In quell’intreccio si annida il genio romano: la capacità di tradurre la metafisica in sistema urbano. Quando il papato si trasferisce ad Avignone, portando con sé il centro del mondo cristiano, Roma rimane un guscio, ma un guscio che respira. Nel vuoto lasciato dal pontefice, la città si trasforma in reliquiario e laboratorio. La cattività avignonese (1309-1377) appare come una ferita aperta, ma anche come l’occasione per un atto di autonomia spirituale. Un modellino ligneo del Palais des Papes evoca la grandezza del potere trasferito, mentre un affresco con la Santissima Trinità, proveniente da una chiesa romana, mostra la fede che rimane: l’immagine di un popolo che, anche senza guida, continua a produrre segni di devozione. Roma non tace mai, ma mormora attraverso le sue mura. L’elezione di Clemente VI nel 1343 riaccende la tensione politica. Il Comune di Roma lo supplica di tornare e di anticipare il Giubileo: il papa concede la festa ma non il ritorno, stabilendo che si celebri ogni cinquant’anni. È un gesto ambiguo, a metà tra la grazia e il diniego, come se l’autorità volesse concedere il perdono senza condividere la presenza. Quel frammento d’epigrafe dedicato a Clemente VI, conservato da Santo Spirito in Sassia, non è soltanto un resto archeologico, ma il simbolo di una nostalgia del potere: una Roma che guarda verso Avignone come verso un sole distante. Ma il cielo del 1348 si oscurò. La Peste Nera falciò la popolazione, lasciando nella città un silenzio che la mostra traduce con la figura dell’Arcangelo Michele, in marmo, le ali spiegate e la spada levata. È l’immagine della salvezza che scende dal cielo quando la terra muore. Un anno dopo, un violento terremoto spezza le torri medievali e scuote le certezze della civiltà. Eppure Roma, come sempre, resiste: dalle sue macerie nasce un pensiero nuovo, in cui la rovina non è più fine ma origine. In questo orizzonte di instabilità, appare Cola di Rienzo, tribuno visionario che tenta di restituire alla città la gloria perduta. È un personaggio doppio: politico e profeta, ribelle e sognatore, emblema di un popolo che cerca nel passato la misura del futuro. La mostra ne restituisce il mito attraverso opere ottocentesche che più della cronaca rivelano la psiche collettiva del romano: il desiderio di autorità unito alla paura della libertà. Intorno a lui si dispiega il paesaggio mentale dei Mirabilia Urbis, le leggende che uniscono sacro e mito, dove il Petrarca e gli eruditi medievali descrivono una città che parla con i suoi frammenti. La Lastra dell’Aracoeli, raffigurante la visione di Augusto, diventa emblema di continuità: in quel rilievo, secondo la leggenda, il pagano vide il volto del Cristo venturo. La storia si piega alla profezia, e Roma sopravvive traducendo l’Antico nel linguaggio del sacro. Al centro del percorso non c’è il trionfo, ma la moltitudine dei pellegrini. Uomini e donne che attraversano l’Europa con il bordone e la bisaccia. Le loro insegne di piombo, oggi in mostra, sono l’archeologia della fede popolare, la traccia tangibile di un’umanità che viaggia verso Roma come verso se stessa. L’immagine della Veronica, il volto di Cristo impresso sul velo, diviene l’icona di questo bisogno: il sacro che si fa corpo, il mistero che si lascia toccare. Quando infine il papa torna nel 1377, guidato da Gregorio XI e Santa Caterina da Siena, Roma non è più la stessa. Ha conosciuto la solitudine, ha imparato a esistere senza centro, a riconoscersi nella propria disgregazione. La mostra si chiude su questo sentimento di ritorno e perdita, con l’immagine della giovane Jacopa dei Prefetti di Vico, sposa di Andrea Tomacelli, la cui sepoltura nei Musei Capitolini segna la fine di un’epoca. Dopo di lei, il Comune medievale scompare e la città rientra nell’orbita papale, ma il sogno di autonomia che fu del 1350 rimane impresso come un sigillo. Questa esposizione non restituisce soltanto reperti, ma la percezione di una città che ha fatto del vuoto il proprio centro. Roma, anche quando resta sola, non è mai deserta: custodisce nel silenzio la memoria di secoli e nel silenzio, come nel 1350, ritrova ogni volta la sua eternità.