Roma, Corner MAXXI
CHRIS SOAL
Spillovers: Notes on a Phenomenological Ecology
A cura di Cesare Biasini Selvaggi
Produzione Fondazione D’ARC
in collaborazione con Piero Atchugarry Gallery (Miami – Pueblo Garzón) e Montoro12 Gallery (Bruxelles – Roma)
Roma, 15 ottobre 2025
Non tutto ciò che è imperfetto è destinato a perdersi. Vi sono materiali che, prima di dissolversi, chiedono ancora di essere ascoltati, come creature che esigono memoria. È da questa resistenza delle cose – dalla loro dignità silenziosa – che nasce la scultura di Chris Soal, artista sudafricano nato a Johannesburg nel 1994, in una terra dove la luce non illumina ma rivela, e la materia non è muta ma partecipe.
L’Africa, con la sua densità fisica e spirituale, ha impresso nel suo sguardo una percezione del mondo come totalità vivente: una visione in cui il minerale, il vegetale e l’umano coesistono in un equilibrio fragile ma profondo. Nel lavoro di Soal, fatto di materiali difettosi e residuali – stuzzicadenti, tappi di bottiglia, cemento, carta vetrata – non c’è gesto di spreco, ma un’idea di rigenerazione. Il suo linguaggio è insieme estetico e ecologico: l’opera nasce dal rispetto per ciò che già esiste, dalla consapevolezza che ogni frammento può rinascere in altra forma. La scarsità, in questo senso, diventa principio poetico e politico: la possibilità di creare non accumulando, ma trasformando. La mostra Spillovers: Notes on a Phenomenological Ecology, curata da Cesare Biasini Selvaggi per il Corner MAXXI, prende titolo da un concetto scientifico che descrive il traboccamento, il passaggio di una soglia biologica. In biologia, “spillover” è il momento in cui un virus, un organismo, o una condizione vitale supera i propri limiti e si adatta a un nuovo contesto. Soal ne fa un principio estetico: tutto, nella sua opera, vive di passaggi e metamorfosi. Le forme non sono mai definitive, ma processi in corso. La materia oltrepassa la sua funzione, si emancipa dal gesto che la plasma, fino a sorprendere lo stesso artista. È proprio da questo confronto fra controllo e libertà che nasce la meraviglia.
Soal tenta di disciplinare la materia, ma la materia risponde seguendo leggi proprie: si piega, si espande, reagisce. Il cemento si comporta come tessuto, il metallo come organismo, il legno come carne. È un dialogo fisico e mentale, dove l’artista non domina ma osserva, lasciando che le cose manifestino la loro vitalità. Così, l’opera diventa evento: una trasformazione che accade sotto i suoi occhi, rivelando il mistero di una materia che pensa. Le sculture si offrono come superfici vibranti, membrane che respirano. La luce naturale del Corner MAXXI ne accompagna le mutazioni, filtrando fra le porosità del cemento e la lucentezza dei tappi. In questa dimensione percettiva, il lavoro di Soal non rappresenta, ma evoca: la materia non è più oggetto, ma esperienza. Ogni elemento conserva la propria memoria industriale, ma la trascende, rigenerandosi in un linguaggio visivo che parla di sostenibilità, di coesistenza, di un nuovo equilibrio tra uomo e ambiente. L’ecologia che Soal propone non è programmatica né moralistica: è una fenomenologia del vivente. Egli mostra che anche i materiali considerati secondari possono rivelare una forma di intelligenza naturale. L’opera nasce dall’ascolto del mondo, non dal suo consumo. E in questo ascolto si riconosce una dimensione profondamente etica, che restituisce al gesto artistico la responsabilità del tempo. La sua scultura, in definitiva, è un esercizio di attenzione: un modo di restituire al visibile la sua spiritualità terrestre.
La mostra, prodotta dalla Fondazione D’ARC in collaborazione con la Piero Atchugarry Gallery e la Montoro12 Gallery, si sviluppa come un paesaggio in evoluzione. Le opere si addensano, poi si diradano, come in un ecosistema che respira. L’allestimento, sobrio e organico, guida lo sguardo verso un dialogo continuo tra forma e spazio, tra peso e vibrazione. In questa fluidità, lo spettatore diventa parte del processo: non osserva la materia, ma ne avverte la trasformazione. Sotto la precisione del gesto di Soal si nasconde una dolcezza tellurica, una sensibilità che proviene dalla sua terra natale. L’Africa non è mai dichiarata, ma si avverte: nel modo in cui la luce si posa sulle superfici, nella gravità del colore, nel ritmo lento con cui le cose sembrano respirare. È un’eco lontana ma persistente, che restituisce all’arte il suo legame originario con la natura e con il sacro. Quando il percorso termina, non resta silenzio ma vibrazione. Si esce dal Corner con la sensazione che la materia abbia ripreso la parola, che le cose — quelle umili, imperfette, inascoltate — siano tornate a guardare chi le aveva dimenticate. È come se l’Africa, con il suo respiro primordiale e la sua idea ciclica della vita, avesse attraversato ogni opera. Così Soal ci ricorda che l’arte non nasce dal dominio, ma dal dialogo: e che la bellezza, quando è autentica, non è un privilegio umano, ma una forma di continuità del mondo.