Roma, Musei Capitolini
ANTICHE CIVILTA’ DEL TURKMENISTAN
promossa da Roma Capitale con la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali
in collaborazione con il Ministero della Cultura del Turkmenistan, l’ISMEO, il CRAST di Torino e l’Università degli Studi di Torino
curata da Claudio Parisi Presicce, Barbara Cerasetti, Carlo Lippolis e Mukhametdurdy Mamedov
Roma, 25 ottobre 2025
Per la prima volta, le sale del Palazzo dei Conservatori ai Musei Capitolini accolgono una grande mostra archeologica dedicata al Turkmenistan antico, un Paese che fu crocevia di culture, commerci e linguaggi, e che oggi rivela al pubblico europeo la sua straordinaria profondità storica. Antiche civiltà del Turkmenistan riunisce oltre duecento reperti provenienti da due grandi contesti archeologici: la Margiana protostorica e l’antica Partia, testimoni di civiltà che, tra il III millennio a.C. e il I d.C., fiorirono al centro dell’Asia, lungo le rotte che collegavano la Mesopotamia, l’altopiano iranico e la Valle dell’Indo.
L’iniziativa, promossa da Roma Capitale con la Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, in collaborazione con il Ministero della Cultura del Turkmenistan, l’ISMEO, il CRAST di Torino e l’Università degli Studi di Torino, è curata da Claudio Parisi Presicce, Barbara Cerasetti, Carlo Lippolis e Mukhametdurdy Mamedov. Non è solo una mostra: è un viaggio nella materia e nel tempo, dove l’oro, l’argilla, l’avorio e la pietra diventano strumenti di conoscenza. Il percorso inizia nella regione della Margiana, un’oasi fertile nel deserto del Karakum, nel sud-est del Turkmenistan. Qui, nel delta del fiume Murghâb, tra il 2500 e il 1500 a.C. si sviluppò una delle culture più raffinate dell’età del Bronzo: il complesso archeologico Bactria-Margiana, noto anche come “civiltà dell’Oxus”. Gli scavi, condotti a partire dagli anni Settanta dal russo Viktor Sarianidi, hanno portato alla luce città fortificate, templi e palazzi in mattoni crudi, dotati di sistemi idrici avanzati e spazi cerimoniali. Il sito più importante, Gonur-Tepe, è una città straordinariamente pianificata, con mura concentriche, torri e complessi religiosi dedicati al fuoco e all’acqua, elementi sacri per le popolazioni iraniche antiche. Tra i reperti provenienti da Gonur-Tepe spiccano le collane in oro e pietre dure, esposte per la prima volta in Italia: capolavori di oreficeria che uniscono eleganza e potenza simbolica.
L’oro rappresentava il sole, la regalità, la vita eterna; le pietre azzurre, come lapislazzuli e turchese, evocavano il cielo e l’acqua, fonti di fertilità e conoscenza. Questi monili, costruiti con equilibrio geometrico, testimoniano una visione del mondo in cui arte, rituale e ordine cosmico coincidevano. Ma l’interesse di Gonur non si limita all’oreficeria: l’intero assetto urbano e idraulico riflette una cultura che aveva saputo trasformare il deserto in giardino, canalizzando l’acqua del Murghâb con ingegneria e devozione. I templi, le necropoli e le officine mostrano un’organizzazione sociale complessa e stratificata, capace di gestire risorse, commercio e ritualità. Non a caso, nella Margiana si trovano influenze che vanno dall’Iran all’Indo, con sigilli e oggetti che attestano contatti con le culture elamita e harappana. L’Asia Centrale emerge così come spazio di intersezione, dove le civiltà si parlavano attraverso la materia, molto prima che attraverso la scrittura. Dal cuore della Margiana, la mostra conduce al Turkmenistan centro-meridionale, nell’antica Nisa, la città fondata dai re Arsacidi, dinastia che diede vita all’impero dei Parti. Nisa — oggi sito UNESCO — sorgeva su un’altura a poca distanza dall’attuale Ashgabat, ed era cinta da mura poderose, scandite da quarantatré torri.
Fu insieme residenza, luogo di culto e archivio del potere: nei suoi ambienti sono stati ritrovati magazzini per il vino, documenti amministrativi su frammenti ceramici e centinaia di sculture e bassorilievi. In mostra si possono ammirare teste in argilla cruda che raffigurano sovrani, sacerdoti e guerrieri, modellate con una forza plastica che coniuga idealizzazione e realismo. Questi volti, severi e assorti, restituiscono la psicologia di un potere che si voleva ieratico, ma anche umano. Accanto a loro, i rhyta — vasi per libagioni in avorio e terracotta — rappresentano l’apice dell’arte partica. Decorati con scene mitologiche e motivi ellenistici reinterpretati, uniscono la tradizione iranica alla sensibilità greca, segno dell’incontro tra mondi che caratterizzò l’impero. Gli ostraka di Nisa, frammenti ceramici iscritti, documentano una complessa burocrazia: elenchi di beni, quantità di vino, cereali e metalli, che rivelano un sistema di controllo e redistribuzione delle risorse tipico di uno Stato organizzato.
Nisa non fu solo un centro religioso, ma anche un nodo commerciale lungo le rotte che collegavano l’Eufrate e la Battriana, fino alla Cina. La sua vitalità dimostra che la Partia, lungi dall’essere un impero statico, era un ponte tra Occidente e Oriente, un interlocutore di Roma e un interprete originale della cultura ellenistica. La mostra costruisce un filo invisibile tra la Margiana del Bronzo e la Partia ellenistica. Le due civiltà, separate da più di un millennio, condividono un’idea comune di spazio e di potere: il dominio sulla natura, la sacralità del sovrano, la centralità del rito. I canali di Gonur e le torri di Nisa, le collane d’oro e i rhyta d’avorio, appartengono alla stessa genealogia simbolica, quella di un mondo che concepiva la bellezza come ordine, e l’ordine come forma di verità. L’allestimento delle sale capitoline accompagna lo spettatore in questa continuità. Le luci radenti esaltano la plasticità delle superfici, i pannelli cartografici e le ricostruzioni 3D restituiscono il paesaggio originario delle oasi, mentre le vetrine tematiche articolano il racconto come un viaggio geografico e spirituale. Ciò che colpisce, oltre alla magnificenza dei reperti, è il modo in cui questa mostra restituisce all’Asia Centrale il ruolo che le spetta nella storia antica: non periferia, ma centro di una rete culturale vastissima. Tra la Mesopotamia e l’India, il Turkmenistan fu una soglia, un laboratorio di forme, dove le civiltà si incontravano e si trasformavano. Oggi, grazie a un lavoro di ricerca condiviso, quelle sabbie antiche tornano a parlare con la voce della materia: una voce che racconta il rapporto tra uomo e deserto, tra arte e necessità, tra fede e potere. In un’epoca in cui i confini tornano a dividere, la mostra dei Musei Capitolini ci ricorda che le civiltà più durature nascono dall’incontro, non dalla separazione.
Roma, Musei Capitolini: “Antiche civiltà del Turkmenistan”