Roma, Museo Nazionale Romano
HIDDEN COLLECTIONS
di Giorgio Noto
curata da Alessandro Dandini de Sylva
Roma, 14 ottobre 2025
Il Museo Nazionale Romano, nella maestosa sede di Palazzo Massimo, inaugura un capitolo estetico e teorico di grande rilievo con la mostra Hidden Collections di Giorgio Di Noto, curata da Alessandro Dandini de Sylva. Una mostra che non si limita a esporre, ma che produce interrogativi: che cosa significa rendere visibile ciò che normalmente è celato? Quale ruolo assume oggi la fotografia nella mediazione tra passato e presente, tra reperto e lettore? Inserito nel contesto della Strategia Fotografia 2024, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, questo progetto si pone come un esperimento critico sulla relazione tra patrimonio, archivio e memoria.
La ricerca di Di Noto si muove su un doppio binario che intreccia il tema dell’invisibilità con quello dell’archivio. Il museo, luogo deputato all’esposizione del visibile, nasconde al proprio interno un universo segreto di depositi, laboratori di restauro e archivi fotografici. Queste aree, tendenzialmente escluse dallo sguardo del pubblico, diventano il soggetto di una nuova indagine visiva. In questo rovesciamento di prospettiva, l’artista trasforma la dialettica tra visibile e invisibile: non è più soltanto il reperto a essere esposto e poi celato dal tempo, ma i processi stessi che lo rendono tale – restauro, selezione, documentazione – diventano oggetto di visione. L’archeologia non appare qui come disciplina del passato, ma come paradigma metodologico del presente: scavare, stratificare, interrogare l’invisibile per far emergere la traccia. Tuttavia, Di Noto sa che la traccia, nella fotografia, è già mediazione, già interpretazione. Non si tratta mai di “ciò che fu”, ma di ciò che è stato scelto, conservato e restituito. L’invisibilità non è un’assenza neutra, ma il risultato di un atto di selezione, una conseguenza delle politiche dello sguardo e della memoria.
Da qui l’importanza di affidare a un artista contemporaneo la lettura del patrimonio nascosto del museo: un modo per mettere in discussione l’idea stessa di neutralità documentaria, riconoscendo che ogni immagine è frutto di potere, di decisione, di montaggio. Il fulcro del progetto si concentra sull’Archivio fotografico del Museo Nazionale Romano, considerato da Di Noto come un terreno archeologico da cui estrarre non soltanto immagini ma i segni del tempo stesso: lastre, negativi, stampe, le loro imperfezioni e i residui materiali della loro lunga conservazione. In questi oggetti apparentemente secondari, l’artista rintraccia la vitalità di una storia nascosta, fatta di usure, cancellazioni, tracce di manipolazione. Le superfici fotografiche si rivelano come pelle della memoria, registri tattili di un tempo sedimentato. Tra i materiali d’archivio, particolare rilievo assume l’uso della maschera fotografica, dispositivo tecnico che isola il reperto dal contesto per rendere più leggibile la sua immagine. In Hidden Collections questo gesto assume una valenza critica: la maschera, che dovrebbe rivelare, diventa anche ciò che cancella, delimita, impone un confine tra ciò che può essere visto e ciò che resta escluso. È un atto di selezione, dunque di potere, ma anche un gesto estetico che rende percepibile la soglia stessa della visione.
La fotografia, nel lavoro di Di Noto, si fa strumento di interrogazione della realtà e dei meccanismi che la costruiscono. Le opere dialogano con i reperti archeologici, costruendo un percorso visivo e mentale in cui la materia antica incontra la luce contemporanea dell’obiettivo. Il risultato è un dialogo tra la permanenza e la disgregazione, tra la forma e la sua dissolvenza. Le fotografie non riproducono semplicemente gli oggetti: li rivelano come presenze vulnerabili, immerse nel tempo. E i reperti, a loro volta, cessano di essere “testimonianze” per divenire segni mobili, partecipi di una metamorfosi continua del visibile. Il visitatore è così chiamato a ripensare il concetto stesso di archivio. Non un deposito di verità, ma un sistema instabile di scelte, omissioni, sopravvivenze. Ogni immagine, ogni documento, ogni inquadratura risponde a una tensione tra ciò che si vuole tramandare e ciò che si decide di dimenticare.
Hidden Collections ci invita a sospendere il giudizio, a esplorare la zona grigia tra testimonianza e invenzione, tra documento e interpretazione. La memoria emerge come un processo dinamico, mai definitivo, dove il tempo agisce come un agente di trasformazione più che di conservazione. Il progetto assume una forte dimensione civile. È un esempio di committenza che non mira a riempire gli spazi museali, ma a renderli consapevoli di sé, a farli reagire alla propria stessa sostanza. Il Museo Nazionale Romano accetta di esporsi nel suo lato ombroso, mostrando non soltanto i reperti ma i dispositivi che li sostengono, i meccanismi del restauro, le ombre del tempo e della conservazione. L’istituzione non si limita a custodire, ma si lascia interrogare, trasformandosi in un laboratorio del pensiero visivo contemporaneo. In questo percorso, la curatela di Alessandro Dandini de Sylva riveste un ruolo fondamentale. Egli riconosce nel lavoro di Di Noto una pratica di indagine e di scavo che non è mai illustrativa, ma costantemente riflessiva. La fotografia non è per lui uno strumento di riproduzione, bensì un dispositivo critico che svela le condizioni stesse della visibilità.
Così, l’artista attraversa i depositi e gli archivi del museo come un poeta attraversa una miniera di immagini: prelevando, riattivando, restituendo al presente frammenti di una memoria che si credeva dormiente. Il testo descrive Hidden Collections, la mostra di Giorgio Di Noto al Museo Nazionale Romano – Palazzo Massimo, curata da Alessandro Dandini de Sylva nell’ambito di Strategia Fotografia 2024. L’artista indaga i depositi, i laboratori e l’archivio fotografico del museo, trasformando il patrimonio invisibile in un campo di riflessione sulla memoria, sull’archeologia e sulla fotografia come pratiche di selezione e interpretazione. Le sue opere dialogano con i reperti antichi, mostrando come ogni immagine sia costruzione e non semplice documento. L’uso della maschera fotografica, che isola e cancella, diventa metafora del potere dello sguardo. Il progetto, sostenuto dal Ministero della Cultura, invita a ripensare l’idea stessa di archivio, rivelando che il passato non è un’eredità immobile, ma un orizzonte in continua trasformazione. In questo incontro fra archeologia e fotografia, il museo si fa spazio critico dove il visibile e l’invisibile si interrogano reciprocamente.