Roma, Palazzo Bonaparte: “Alphonse Mucha. Un trionfo di bellezza e seduzione”

Roma, Palazzo Bonaparte
“ALPHONSE MUCHA. UN TRIONFO DI BELLEZZA E SEDUZIONE”
A cura di Elizabeth Brooke e Annamaria Bava
Direzione scientifica Francesca Villanti
Promossa da Arthemisia in collaborazione con la Mucha Foundation e i Musei Reali di Torino
Roma, 07 ottobre 2025
La mostra “Alphonse Mucha. Un trionfo di bellezza e seduzione”, allestita a Palazzo Bonaparte a Roma, riunisce oltre centocinquanta opere tra manifesti, bozzetti, studi e dipinti del maestro ceco (Ivančice, 1860 – Praga, 1939), in un percorso che ambisce a ricomporre la complessità di una figura centrale per la cultura visiva europea tra fine Ottocento e primo Novecento. Promossa da Arthemisia in collaborazione con la Mucha Foundation e i Musei Reali di Torino, la rassegna — curata da Elizabeth Brooke e Annamaria Bava, con la direzione scientifica di Francesca Villanti — mira a restituire il ruolo di Mucha come interprete di un’estetica unitaria, in cui la decorazione è linguaggio e non semplice ornamento. Nel suo viaggio a Roma, intrapreso negli anni giovanili, Mucha non trovò la quiete che aveva cercato. Le fonti ricordano il suo disagio nel confronto con la città antica, che lo irritava per la troppa materia e la scarsa misura. Roma, con la sua densità di pietra e di storia, lo innervosiva: «tutto qui è eccesso», scriveva, «anche la luce». Forse fu proprio da quel contrasto che nacque la sua esigenza di ordine, la sua volontà di ridurre il mondo a ritmo, a segno, a costruzione. Nella sua opera la forma è un atto di controllo, la bellezza una disciplina. Nelle sale di Palazzo Bonaparte, questa concezione appare in tutta la sua chiarezza. I manifesti teatrali, i pannelli decorativi e le serie allegoriche rivelano un artista che concepisce la composizione come un sistema di forze: la linea curva che guida lo sguardo, la figura femminile che diventa centro ideale, il colore che non invade ma sostiene. L’armonia non è sentimento, è architettura. L’ornamento, lungi dall’essere un compiacimento, è struttura. I suoi celebri manifesti per Sarah BernhardtGismonda, Médée, La Dame aux Camélias — rappresentano non solo l’incontro tra grafica e teatro, ma una ridefinizione del rapporto tra immagine e potere. La diva diventa icona, il volto si trasforma in simbolo, la pubblicità in liturgia. In queste opere, la modernità non è rottura, ma trasfigurazione. Il segno si fa ieratico, la linea si tende verso l’assoluto: tutto è disegnato per durare, non per stupire. A differenza di altri interpreti dell’Art Nouveau, Mucha non indulge nella grazia. La bellezza, per lui, è proporzione, non seduzione. Le sue figure non sorridono, non si concedono; si offrono come presenze che impongono distanza. Eppure, dietro quella compostezza si nasconde una sensualità profonda, fatta di ritmo e di respiro. L’armonia, nelle sue mani, diventa un modo per sublimare la materia. La mostra restituisce bene questo equilibrio, accompagnando il visitatore in un percorso che si muove dalla grafica teatrale alle grandi allegorie cosmiche — The Times of the Day, The Flowers, The Stars — fino ai dipinti dedicati all’Epopea slava, realizzati dopo il ritorno a Praga. È un viaggio dall’intimo al monumentale, dal piacere visivo all’impegno storico. Il linguaggio resta lo stesso: la linea come architettura dello spirito. A completare il percorso, una scelta che sorprende e convince: il dialogo con la Venere di Botticelli, prestito dei Musei Reali di Torino. L’accostamento, lungi dall’essere forzato, illumina la continuità dell’idea occidentale di grazia. Botticelli e Mucha, distanti quattro secoli, condividono lo stesso principio compositivo: la linea come misura, la bellezza come forma di ordine morale. L’uno sublima l’ideale umanistico, l’altro lo traduce nella lingua della modernità industriale. Tuttavia, se la costruzione intellettuale dell’esposizione è solida, l’allestimento resta fedele alla formula ormai riconoscibile delle mostre di Palazzo Bonaparte: ambienti quasi completamente bui, attraversati da fasci di luce diretti sulle opere, in modo da isolarle nello spazio e renderle oggetti di culto visivo. È una soluzione che funziona, che restituisce alle immagini la loro sacralità, ma la sua ripetizione comincia a mostrare i limiti di uno schema. La penombra costante, per quanto suggestiva, finisce per appiattire la percezione e impedire una lettura più naturale delle cromie e dei materiali. Forse, dopo tante esposizioni costruite su questo modello, un piccolo cambiamento scenografico — una variazione tonale, un dialogo più ampio con la luce — potrebbe restituire maggior respiro all’esperienza. Nonostante questo, l’allestimento accompagna con rispetto le opere e ne valorizza la forza grafica. La linearità dei percorsi, la chiarezza dei pannelli e la sobrietà dei cromatismi permettono di cogliere la coerenza del linguaggio di Mucha: un’arte che, pur nata per la strada, conserva il rigore della cattedrale. L’ornamento, in lui, non distrae: educa lo sguardo alla misura, all’armonia, alla calma. L’esposizione non si limita a esibire capolavori; mostra un metodo. La forma, in Mucha, è un pensiero che si ripete con variazioni infinite, come un tema musicale. Ogni manifesto, ogni allegoria, ogni volto femminile è parte di una grammatica che si fonda sulla linea, intesa non come contorno ma come idea. L’arabesco, spesso scambiato per decorazione, è invece costruzione concettuale: una rete che unisce spirito e materia. Questa chiarezza di visione rende Mucha un artista necessario, nonostante il suo apparente distacco dalle inquietudini del Novecento. In un’epoca di fratture, la sua fede nella forma suona quasi anacronistica, ma proprio per questo risulta preziosa. Egli mostra che la bellezza non è evasione, ma conoscenza: una via per ordinare il mondo e comprenderlo. Si esce dalla mostra con la sensazione di aver attraversato non solo un universo estetico, ma una teoria del vedere. In un tempo in cui l’immagine è consumo, Mucha restituisce alla visione la sua dignità: l’atto di guardare come esercizio di misura. La sua Roma, quella che lo aveva infastidito per troppa luce e troppa grandezza, lo ritrova ora in una penombra controllata, dove il segno e il silenzio tornano a coincidere. E forse è proprio questo il messaggio più attuale del maestro boemo: che la bellezza, se è tale, non deve gridare per essere ascoltata. Basta una linea, una curva perfettamente tracciata, perché il mondo ritrovi, anche solo per un istante, la propria forma.