Roma, Palazzo Cipolla: “Dalì. Rivoluzione e Tradizione”

Roma, Palazzo Cipolla
DALI’. RIVOLUZIONE E TRADIZIONE
Curata da Montse Aguer, Carme Ruiz González e Lucia Moni
promossa da Fondazione Roma
con la collaborazione della Fundació Gala-Salvador Dalí
Roma, 16 ottobre 2025
L’arte è sempre un gioco di equilibri precari tra l’impulso e la regola, tra il caos e la geometria. A dire il vero, “rivoluzione” e “tradizione” sono due parole che non si sopportano, come due vecchi amanti che continuano però a cercarsi. In questa loro incompatibilità convivente si è costruito il pensiero visivo dell’intero Novecento, e pochi più di Salvador Dalí hanno saputo incarnarne la vertigine. La mostra Dalí. Rivoluzione e Tradizione, allestita a Palazzo Cipolla fino al 1° febbraio 2026, promossa da Fondazione Roma con la collaborazione della Fundació Gala-Salvador Dalí, è un’occasione preziosa per tornare a guardare oltre i baffi del personaggio e ritrovare la mente febbrile e disciplinata del pittore. Curata da Montse Aguer, Carme Ruiz González e Lucia Moni, l’esposizione raccoglie oltre sessanta opere, tra dipinti, disegni, fotografie e materiali audiovisivi, provenienti dai più importanti musei internazionali — dal Reina Sofía di Madrid alle Gallerie degli Uffizi — restituendo un ritratto a più dimensioni di colui che fu insieme alchimista e scienziato dell’immagine. Dalí è uno di quei pochi artisti che hanno avuto il coraggio di essere se stessi anche quando non conviene. Dietro la teatralità da dandy surrealista — il bastone, i gilet damascati, il gesto oracolare — si nascondeva un uomo di studio, un disegnatore ossessivo, capace di studiare Velázquez con la concentrazione di un monaco e di ripensare la prospettiva rinascimentale attraverso la fisica nucleare. «Il Surrealismo sono io», dichiarò nel 1934, con l’arroganza innocente di chi sa che, in fondo, l’arte è un atto di solipsismo organizzato. La mostra romana, costruita con intelligenza filologica, lo racconta nella sua interezza: dall’apprendistato di Figueres al dialogo con Parigi, dal metodo paranoico-critico — quella bizzarra macchina per produrre realtà alternative — fino al ritorno maturo alla tradizione pittorica. Nella sezione dedicata alle avanguardie, il giovane Dalí incontra Picasso nel 1926: un incontro-scontro tra due geni mediterranei che si riconoscono e si respingono come due specchi. “Picasso è spagnolo, io pure; Picasso è un genio, io pure”, scriverà anni dopo nel Diario di un genio (1963), con la consueta ironia che traveste la rivalità in gioco dialettico. Opere come Tavolo di fronte al mare e Omaggio a Erik Satie restituiscono un lirismo sospeso: oggetti e figure che sembrano disfarsi nell’aria, come se il sogno avesse bisogno di una disciplina formale per non dissolversi del tutto. È un Dalí che cerca l’assoluto dentro l’instabile, la forma dentro l’inconscio. Quando l’Europa si getta nel labirinto dell’informale, Dalí compie la sua ennesima metamorfosi: decide di tornare al mestiere, di riconciliarsi con la tradizione. Non è un ritorno conservatore, ma un’operazione quasi chirurgica, come se volesse dimostrare che l’innovazione non può esistere senza la memoria della tecnica. Negli anni Quaranta e Cinquanta studia Raffaello, Vermeer, Velázquez. In 50 segreti magici per dipingere (1948) — un testo che andrebbe letto da ogni pittore che si rispetti — afferma che la pittura è una scienza dell’occhio e dello spirito, una geometria della meraviglia. Dalì si scopre mistico e matematico, e dalla fusione tra Rinascimento e fisica nasce quella che lui stesso battezza “mistica nucleare” (Manifesto mistico, 1951): una visione del mondo in cui la struttura atomica diventa la nuova icona del divino. In mostra, questa fase culmina nel Incendio del Borgo del 1979, vertiginoso esperimento stereoscopico in cui la prospettiva rinascimentale si apre allo spazio tridimensionale. L’occhio non contempla, ma viene risucchiato: la pittura si fa vortice, la forma implode nella propria luce. Uno dei meriti più evidenti della mostra è l’aver compreso che un artista come Dalí non si può semplicemente “esporre”: bisogna metterlo in scena. E in questo senso, i labirinti di Palazzo Cipolla diventano parte del racconto.
Quegli spazi sotterranei e irregolari, che in altre occasioni rischiano di confondere il visitatore per mancanza di luce o d’altezza, qui sembrano allearsi con l’artista. La disorientante sequenza di sale, corridoi e volte basse amplifica l’effetto di vertigine: non si visita Dalí, lo si attraversa. Ci si perde per ritrovarsi, come in un sogno lucido in cui la logica si dissolve per lasciare spazio alla percezione. È un disorientamento psichico controllato, quasi un omaggio architettonico al metodo paranoico-critico stesso. Le opere non si limitano a essere viste: appaiono e scompaiono in un ritmo percettivo che imita il funzionamento della mente daliniana, dove la ragione e l’allucinazione convivono come due facce dello stesso specchio. Le fotografie di Francesc Català Roca e Juan Gyenes, disseminate lungo il percorso, restituiscono un Dalí domestico, alle prese con il proprio teatro interiore: pennello in mano, occhio febbrile, intento a fabbricare il proprio mito. Sono immagini che rivelano il lato meno istrionico del personaggio, quello del lavoratore metodico che trasformava la follia in mestiere. L’allestimento si chiude con una riflessione sul tempo — non come cronologia, ma come materia plastica. Dalí, del resto, non dipingeva momenti, ma universi. «Io non dipingo quadri, costruisco universi», scrisse in La vita segreta di Salvador Dalí (1942), e l’intera mostra romana sembra farsi eco di questa dichiarazione. A Roma, Dalí torna non come provocatore, ma come classico ritrovato. La Fondazione Roma, nel proseguire il suo dialogo tra arte moderna e grande tradizione europea, non propone un’ennesima retrospettiva, ma un atto di riconciliazione: tra il gesto e la misura, tra la follia e la logica, tra l’occhio e la mente. Dalí. Rivoluzione e Tradizione dimostra che il genio catalano non fu mai solo l’artista delle mollezze e degli orologi liquefatti. Fu, piuttosto, il restauratore dell’immaginario, il costruttore di un ponte tra la visione e la regola. In fondo, è proprio nella tensione fra rivoluzione e tradizione che l’arte sopravvive: nel suo perpetuo oscillare tra l’ebbrezza e la lucidità. E mentre si esce da Palazzo Cipolla, ancora un po’ storditi dal percorso, si comprende che questo smarrimento non è un difetto ma una conquista. Perché con Dalí — come con ogni vero artista — il disordine non è mai caos: è un metodo per arrivare più vicino al mistero.