Roma, Palazzo delle Esposizioni: “Restituzioni 2025”

Roma, Palazzo delle Esposizioni
RESTITUZIONI 2025
curatela scientifica di Giorgio Bonsanti, Carla Di Francesco e Carlo Bertelli
Promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e dall’Azienda Speciale Palaexpo
organizzata da Intesa Sanpaolo
in collaborazione con il Ministero della Cultura
Roma, 27 ottobre 2025
Restituire è un verbo che suona come un gesto antico, quasi un atto liturgico. Non significa solo ridare, ma rimettere in circolo: è la forma più nobile del ritorno, quella che non pretende nulla, ma restituisce alla materia la sua dignità, alla storia la sua voce, all’occhio la possibilità di riconoscere. Ogni opera d’arte, quando viene restaurata, non torna semplicemente a esistere: ricomincia a parlare. E in quel parlare, spesso sommesso, vibra la memoria di mani, di luoghi, di civiltà intere. È da questo spirito che nasce Restituzioni 2025, la grande mostra promossa da Intesa Sanpaolo e Azienda Speciale Palaexpo, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e in collaborazione con il Ministero della Cultura e l’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale. Dal 28 ottobre 2025 al 18 gennaio 2026, Palazzo delle Esposizioni accoglie una delle imprese più poetiche e civili del nostro tempo: la presentazione al pubblico delle 117 opere restaurate nell’ambito della XX edizione di Restituzioni, il programma che da oltre trentasei anni si fa carico della salvaguardia e della valorizzazione del patrimonio artistico nazionale. Un gesto di cura che non è mai semplice mecenatismo, ma un esercizio di consapevolezza culturale: perché ogni restauro è un modo per tenere in vita la memoria del Paese. Le opere esposte, provenienti da tutte le regioni d’Italia e appartenenti a sessantasette enti diversi — musei, chiese, siti archeologici, fondazioni — raccontano una coralità rara, un’Italia che si riconosce nella sua pluralità. Sono state selezionate da studiosi e funzionari di Intesa Sanpaolo insieme a cinquantuno enti di tutela, seguendo un solo principio: ascoltare i territori, le loro urgenze, le voci che chiedono di tornare a farsi sentire. La curatela di Giorgio Bonsanti, Carla Di Francesco e Carlo Bertelli ha dato forma a una mappa ideale del nostro patrimonio, dove l’arte diventa geografia dell’anima. Ci sono i nomi che abitano la storia maggiore — Giovanni Bellini, Bartolomeo Vivarini, Giulio Romano, Battistello Caracciolo, Luca Giordano, Mario Sironi, Pino Pascali — ma accanto a loro vivono i capolavori silenziosi, le opere che raccontano un’altra Italia, quella che resiste nei dettagli. Così, un’arpicordo di Giovanni Antegnati, costruito nella metà del Cinquecento, torna a vibrare dopo secoli di silenzio; una draisina ottocentesca da Gallarate, antenata della bicicletta, riemerge come fossile poetico della modernità; un arco da Samurai e una barca siamese dal Castello Ducale di Agliè rivelano il fascino dell’altrove nelle collezioni europee; e la barca cucita del Museo Archeologico Nazionale di Adria, lunga più di quattro metri, restituisce l’eco di commerci antichi e di mari lontani. Persino due abiti in stile Charleston e un tessuto liturgico romano in penne di colibrì ci ricordano che la grazia, a volte, sopravvive alle epoche più fragili. Ogni oggetto possiede un senso che va oltre la sua forma: è il riflesso di chi l’ha creato e di chi oggi lo guarda. Un dipinto, un arazzo o un frammento marmoreo non sono mai solo materia: sono emozioni solidificate, testimoni di uno sguardo che ha saputo credere nella permanenza della bellezza. Così la Cariatide da Villa Adriana di Tivoli, il grande arazzo dell’Ingresso in Palestina dalla Fondazione Cini di Venezia, la Croce dipinta di Pisa o la Madonna con il Bambino di Pietro Alemanno da Capua si fanno strumenti di una memoria condivisa. Ogni restauro diventa un atto di rivelazione, come togliere la polvere dal ricordo e trovarvi ancora un battito. Nelle sale si incontrano anche i nomi del Seicento, epoca inquieta e teatrale, con Nicolas Régnier, Giovanni Lanfranco, Mattia Preti, Battistello Caracciolo. Poi l’arte moderna, che in questo percorso si inserisce come una ferita e una continuità insieme: Sironi, Campigli, Carena, Cavalli, Pascali, Zanelli. C’è anche l’eco dell’Europa in questa edizione, con il restauro del Retablo con l’Adorazione dei Magi della chiesa milanese dei Santi Apostoli e Nazaro Maggiore, attribuito a Jan II Borman, maestro fiammingo della Bruxelles rinascimentale. Il lavoro, condotto insieme all’Institut Royal du Patrimoine Artistique di Bruxelles e alla Fondation Roi Baudoin, racconta come la cultura sia un linguaggio senza frontiere, un dialogo tra nord e sud che attraversa secoli e dogane. Sessanta laboratori e decine di scienziati della conservazione hanno partecipato a questo lavoro corale, in un arco cronologico che abbraccia trentacinque secoli. Alcune opere non sono presenti in mostra: per dimensioni o per fragilità rimangono nei luoghi d’origine, come il Martirio di San Vitale di Sebastiano Ricci da Seniga, la Vergine che intercede di Andrea Celesti da Palazzolo sull’Oglio, il Compianto sul Cristo morto di Agostino de Fondulis da Milano, e il colossale cavallo in gesso di Antonio Canova, ricomposto dopo decenni. Quest’ultimo sarà invece protagonista, come un ponte ideale, della mostra Eterno e Visione. Roma e Milano capitali del Neoclassicismo, alle Gallerie d’Italia di Milano. E poi, in un silenzio quasi monastico, gli affreschi di Santa Maria foris portas a Castelseprio: un ciclo di pitture dell’infanzia di Cristo, con episodi tratti dai Vangeli apocrifi. La loro pulitura e mappatura hanno restituito alla luce la delicatezza dei volti, il respiro del colore, il mistero di un cristianesimo primitivo che parla ancora di noi. È una restituzione che va oltre la visione: è un atto di conoscenza. Restituire, in fondo, è un verbo morale e poetico insieme. Significa ridare dignità al tempo, all’ingegno, alla fragilità. Significa accettare che il passato non è un archivio, ma un organismo vivente. E che ogni volta che una mano rimuove lo sporco da una tavola, o che un microscopio rivela la trama nascosta di un tessuto, l’Italia intera si riconosce: non come museo, ma come coscienza. Perché le opere, quando tornano a vivere, non ci restituiscono solo la loro immagine: ci restituiscono a noi stessi.