Roma, Palazzo Firenze
SCENE, VOCI, ACCENTI, SCRITTURE: IN TEATRO INFINITO DI ANDREA CAMILLERI
curata da Giulio Ferroni e dall’Unità Organizzativa Cultura della Dante
in collaborazione con il Fondo Andrea Camilleri
e con la produzione di Arthemisia
Roma, 23 ottobre 2025
Nella vita, come nel teatro, non c’è mai una prova generale che valga per sempre. Ogni gesto, ogni parola, ogni silenzio si consuma nell’istante in cui accade. Forse è per questo che Andrea Camilleri — regista, narratore, maestro di lingue e di uomini — ha sempre guardato alla realtà come a una scena mobile, dove niente si ripete e tutto, anche l’errore, diventa verità. A questa idea di teatro come forma dell’esistenza è dedicata la mostra “Scene, voci, accenti, scritture: il teatro infinito di Andrea Camilleri”, curata da Giulio Ferroni e allestita nella Sala Walter Mauro di Palazzo Firenze, sede della Società Dante Alighieri a Roma, dal 23 ottobre al 9 novembre 2025, in occasione del centenario della nascita dello scrittore. Non è una celebrazione, ma un ritorno alla sorgente.
Camilleri non viene raccontato come il padre di Montalbano, ma come un uomo che ha vissuto scrivendo, parlando, osservando gli altri come fossero personaggi di un’opera infinita. Ogni documento, lettera, fotografia o bozzetto restituisce la sua idea della vita come drammaturgia quotidiana, fatta di voci e di accenti, di errori e di invenzioni. Ferroni, che conosce bene la struttura della letteratura italiana, costruisce un percorso sobrio e preciso, dove l’archivio diventa materia viva e il passato non si lascia imbalsamare. La prima sezione, “La famiglia, la scuola, letture e scoperte”, è un ritorno alle origini. Nei quaderni di scuola, nelle prime poesie datate 1939-1941, nei libri di Montale e Saba che lo formano, si intravede già l’inquietudine del ragazzo che osserva il mondo dal porto di Porto Empedocle, sentendosi parte e al tempo stesso spettatore. Due documenti ottocenteschi, trovati da giovane tra le carte di casa, diventeranno anni dopo La bolla di componenda e La concessione del telefono: segni precoci di una mente che già trasformava la memoria in narrazione. Poi viene la sezione “Poeta o regista?”, che segna la scelta decisiva.
Camilleri comprende presto che la scrittura, da sola, non basta: ha bisogno della voce, del corpo, della scena. I taccuini del 1943 e del 1945, le lettere di Alba de Céspedes ed Elio Vittorini, la poesia Morte di García Lorca premiata nel 1950, raccontano un giovane intellettuale che guarda al teatro come a una necessità vitale. Quando entra all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, la sua vita cambia direzione: la parola deve diventare suono, deve respirare, farsi azione. La terza sezione, “Sulla scena teatrale: tra Beckett e Pirandello”, è il cuore della mostra. Qui Camilleri è regista e spettatore insieme. I copioni, le recensioni, le note di regia e le fotografie di scena restituiscono l’atmosfera di un’epoca in cui il teatro cercava un nuovo linguaggio. Dal sodalizio con Orazio Costa alle regie di Beckett, Ionesco e Pirandello, emerge una visione del teatro come luogo del dubbio e della resistenza. Il silenzio, in Camilleri, non è mai vuoto: è un segno, una pausa che contiene il mondo. Il regista osserva gli attori come esseri vivi, li ascolta respirare, ne capta le esitazioni e le traduce in ritmo scenico. Con “Era la Rai: radio e televisione”, il racconto si apre alla dimensione pubblica. Gli anni del dopoguerra sono quelli in cui l’Italia scopre la propria voce attraverso i nuovi media, e Camilleri diventa uno dei suoi artigiani più consapevoli.
Le sceneggiature di Il tenente Sheridan, Maigret e Western di cose nostre (da Sciascia), insieme a una lettera di Primo Levi sul Versificatore, testimoniano un autore capace di coniugare rigore e popolarità. La sua lingua attraversa il microfono e arriva nelle case con una naturalezza che non è mai improvvisazione, ma forma di empatia. Nella sua idea di televisione non c’è l’intento pedagogico del funzionario, ma la curiosità dell’uomo che ascolta. La quinta sezione, “Un inesauribile narrare”, racconta il passaggio alla narrativa, ma senza cesure. Nei dattiloscritti di Mani avanti (1967–68) e Il corso delle cose (1978) si riconosce il ritmo teatrale: il dialogo che costruisce la scena, la parola che diventa gesto. L’invenzione di Vigàta e del commissario Montalbano non nasce da un bisogno di intrattenere, ma dal desiderio di ascoltare la lingua popolare, di renderla protagonista. Le lettere editoriali, i glossari, le correzioni autografe mostrano un artigiano del linguaggio che lavora come un regista sul copione: riscrive, sposta, lima. La mostra si conclude con “Forme della visione”.
Qui Camilleri appare nella sua ultima metamorfosi: quella dell’intellettuale che vede nell’arte una prosecuzione del pensiero. I piccoli volumi su Caravaggio, Guttuso e Renoir rivelano un occhio attento alla luce e alla composizione, mentre l’ultimo monologo, Conversazione su Tiresia, pronunciato al Teatro Greco di Siracusa nel 2018, suggella l’unione definitiva tra voce e visione. La cecità, che avrebbe potuto essere un confine, diventa per lui un varco. «Vedo dentro le cose», disse allora: ed era vero. In quel monologo, più che in ogni romanzo, si sente la sua fede nella parola come strumento per comprendere il mondo. L’allestimento di Palazzo Firenze accompagna il visitatore con discrezione. Le luci sono basse, mai teatrali; gli spazi raccolti, come una casa abitata più che un museo. L’audioguida, con la voce di Marco Presta, suo ex allievo all’Accademia, non spiega ma racconta: come se Camilleri parlasse ancora, con quella cadenza siciliana che riusciva a rendere ogni concetto un racconto. Ferroni orchestra il tutto come una regia invisibile, lasciando che siano le parole, più che le didascalie, a guidare il passo. Uscendo dalle sale, non si ha la sensazione di aver visitato una mostra, ma di aver assistito a una conversazione. Camilleri non viene dunque ricordato, ma riattivato. Ogni frammento della mostra – le lettere, i copioni, le immagini – non appartiene al passato, ma alla continua costruzione del senso che egli stesso aveva intuito come destino di ogni narrazione. La sua voce resta lì, sospesa tra ironia e lucidità, come un invito a comprendere che nulla è mai davvero concluso: né una storia, né una vita, né la parola che tenta di contenerle.
Roma, Palazzo Firenze: “Scene, voci, accenti, scritture: il teatro infinito di Andrea Camilleri”