Roma, Sala Umberto: “L’importanza di chiamarsi Ernesto”

Roma, Sala Umberto
L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNESTO
di Oscar Wilde

traduzione di Masolino D’Amico
Con Lucia Poli, Giorgio Lupano, Maria Alberta Navello, Luigi Tabita
Giulia Paoletti, Bruno Crucitti, Gloria Sapio, Riccardo Feola
Costumi Chiara Donato
Scene Roberto Crea
Luci Luigi Ascione
Regia di Geppy Gleijeses
Produzione Dear Friends | Artisti Associati – Centro di Produzione Teatrale
Roma, 21 ottobre 2025
C’è un momento, nel secondo atto de L’importanza di chiamarsi Ernesto, in cui la parola “sincerità” implode, perde peso, diventa il vuoto stesso del linguaggio. È lì che Oscar Wilde rivela la sua natura più corrosiva: quella di un autore che non costruisce personaggi ma formule, non cerca la verità ma il piacere di smentirla. The Importance of Being Earnest è una trappola semantica, un gioco perfettamente inutile — e proprio per questo, terribilmente necessario. Alla Sala Umberto di Roma, Geppy Gleijeses ne firma un allestimento di impeccabile compostezza, fedele, calibrato, ma talmente rispettoso da rischiare la cristallizzazione. È un lavoro corretto, elegante, a tratti divertente, che però non osa sporcarsi con l’ambiguità che è l’anima stessa di Wilde. Lo spettacolo procede come un congegno di precisione, lucidato a dovere, ma senza quella minima crepa attraverso cui potrebbe filtrare la vertigine. La scena, disegnata con equilibrio e misura, evoca il salotto vittoriano come una gabbia ben apparecchiata. Ogni gesto è ponderato, ogni oggetto al suo posto, ogni battuta in ritmo. Ma il rischio di tanta armonia è la sterilità: il paradosso — che in Wilde è atto rivoluzionario — qui si trasforma in ornamento. Si ride, certo, ma di una risata pulita, temperata, quasi istituzionale. Il cinismo di Wilde — la sua capacità di affondare il coltello nel midollo dell’ipocrisia sociale — resta ai margini, trattenuto da una regia che privilegia il controllo alla ferocia. Lucia Poli, con la sua consueta intelligenza scenica, domina il testo con misura e ironia. La sua interpretazione è un manuale di equilibrio: voce nitida, gestualità contenuta, tempi perfetti. Eppure, proprio questa perfezione, in un autore come Wilde, rischia di soffocare il veleno. Lady Bracknell — figura nata per incarnare la crudeltà lucida del privilegio — diventa un’icona levigata, più elegante che inquietante. È un’interpretazione che convince, ma non destabilizza. Gli altri  interpreti, lo straordinario Giorgio Lupano, Maria Alberta Navello, Luigi Tabita, Giulia Poletti  e gli attori del ricco cast di contorno ( Bruno Crucitti, la magnifica Gloria Sapio e Riccardo Feola) si muovono con sicurezza all’interno della partitura. Tutti corretti, ben diretti, padroni dei tempi comici, ma raramente attraversati da quella sottile follia che dovrebbe contaminare il tono. Wilde è l’autore della dissonanza, non dell’accordo: la sua commedia non chiede armonia, ma inciampo, rischio, esagerazione. Qui, invece, tutto è temperato, come se la regia temesse il passo falso più del silenzio. Eppure, dietro la sua compostezza, lo spettacolo ha un merito: rifiuta la tentazione dell’attualizzazione grossolana. Nessuna forzatura, nessun adattamento opportunistico. Gleijeses lascia parlare il testo, nella traduzione limpida di Masolino D’Amico, e gli restituisce la sua lingua elegante, l’inglese perfettamente squadrato del mondo di fine Ottocento. È un atto di fiducia nella parola — e questa fiducia, oggi, ha un valore raro. Ma l’ironia non vive di sola forma: ha bisogno di taglio, di velocità, di quella sensazione di pericolo che qui resta sotto controllo. Il bel disegno scenico di Roberto Crea, i costumi di Chiara Donato e le luci di Luigi Ascione servono l’insieme con gusto e discrezione. Tutto è ben fatto, forse troppo. È un teatro che preferisce il mestiere al rischio, la levigatezza alla vertigine, l’applauso sicuro al sorriso obliquo. In Wilde, però, la risata è sempre una forma di rivolta; e quando la ribellione si attenua, resta solo la gentilezza. C’è, in fondo, una contraddizione sottile in questa regia: vuole rispettare la perfezione del testo, ma così facendo ne inibisce la natura più sovversiva. L’importanza di chiamarsi Ernesto è un congegno comico, sì, ma costruito per far esplodere il conformismo morale. Se lo si chiude dentro un museo di buone maniere, ne resta il guscio. È come osservare una farfalla sotto vetro: si ammira la forma, ma è morta la leggerezza. Eppure, alcuni momenti funzionano con grazia: i dialoghi centrali, dove la parola si fa pura acrobazia, restituiscono la musicalità intrinseca di Wilde; le scene corali, nei loro ritmi simmetrici, trovano una meccanica quasi pirandelliana. È in quei passaggi che lo spettacolo sembra respirare, come se per un attimo la precisione smettesse di essere disciplina e tornasse gioco. Ma complessivamente, manca quella vibrazione che trasforma la commedia brillante in rito intellettuale. Manca la crudeltà. Wilde, sotto la seta, è un moralista feroce: ride del mondo perché lo ha smascherato. Qui il riso resta in superficie, elegante ma disinnescato. Si esce dalla Sala Umberto ammirati, non scossi; divertiti, non turbati. E forse il vero Wilde avrebbe preferito il contrario. Lo spettacolo, va detto, è confezionato con cura artigianale e ottimo gusto. Ma la perfezione, in teatro, è spesso il contrario della vita. Wilde chiedeva agli attori di essere «mostruosamente superficiali» per poter toccare la profondità dell’assurdo. Qui, invece, si è prudentemente raffinati. Il pubblico applaude convinto, riconoscendo nel testo la grazia intatta di un classico. Ma tra la grazia e la verità c’è sempre uno scarto, e L’importanza di chiamarsi Ernesto vive proprio lì — nello scandalo della leggerezza. Gleijeses ne offre una lettura composta e consapevole, ma senza scosse. È un Wilde da manuale, lucido e impeccabile, ma che non morde. Si ride con garbo, si ammira con rispetto, si esce senza ferite. Forse troppo poco, per un autore che faceva del disordine morale la sua più grande forma di lucidità.