Roma, Scuderie del Quirinale: “Tesori dei Faraoni”

Roma, Scuderie del Quirinale
TESORI DEI FARAONI
Promossa da Ministero della Cultura
Organizzazione e produzione Ales S.p.A. – Arte Lavoro e Servizi
in collaborazione con Scuderie del Quirinale e MondoMostre Skira
In collaborazione con Supreme Council of Antiquities, Ministero del Turismo e delle Antichità dell’Egitto, Museo Egizio del Cairo, Luxor Museum, Museo Egizio di Torino
Curatore scientifico Tarek El Awady
Consulenza accademica Zahi Hawass
Catalogo Allemandi Editor
Con il patrocinio di Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
Roma, 23 ottobre 2025
“Io sono l’alba che non tramonta, la luce che ritorna.
Il mio corpo è oro, la mia anima è luce.”
(Testi delle Piramidi, Utterance 600)
In Egitto, l’eternità non è una promessa: è una condizione del reale.
Tutto ciò che vive partecipa della durata cosmica, e la forma, più che imitare la vita, la conserva. Nulla, nella civiltà del Nilo, è semplice decorazione; ogni segno, ogni gesto, ogni oggetto è un atto di conoscenza e di permanenza. Camminando tra le sale delle Scuderie del Quirinale, dove la mostra Tesori dei Faraoni dispiega oltre centotrenta opere provenienti dal Museo Egizio del Cairo, dal Luxor Museum, dal Museo Egizio di Torino e dalla Città d’Oro di Amenhotep III, si percepisce che l’antico Egitto non appartiene al passato, ma a un tempo sospeso: un tempo che non finisce, ma continua a essere. Curata da Tarek El Awady con la consulenza di Zahi Hawass, e promossa dal Ministero della Cultura con la collaborazione di Ales S.p.A. e MondoMostre , la mostra non presenta una collezione di reperti, ma una riflessione sull’idea stessa di eternità. Ogni oggetto, restituito alla luce dopo millenni, è portatore di un linguaggio che non si è mai interrotto: la parola sacra della maat, l’ordine invisibile che regge il cosmo, il ritmo che lega il mondo umano a quello divino. Molti di questi reperti, che al Cairo restano ai margini delle sale più affollate, quasi nascosti accanto ai capolavori che i visitatori si affrettano a fotografare, trovano qui una nuova centralità: la mostra li accoglie e li restituisce al loro pieno valore simbolico, rivelandone la forza silenziosa e la funzione sacra che un tempo li animava. L’Egitto antico non separava la materia dallo spirito. L’oro, la pietra, il legno e la parola incisa nei rilievi erano parte di un medesimo respiro. La maat non era solo una legge morale, ma una forma del tempo: il modo in cui la verità si manifesta. Custodirla era il compito del sovrano, per-aa, “la grande casa”, incarnazione di Horus sulla terra e di Osiride nell’aldilà. Il faraone non governava: intercedeva. La sua esistenza era un rito cosmico, il suo corpo il tramite fra cielo e terra. In lui la morte non segnava una fine, ma un passaggio, la riconduzione del ka e del ba all’unità luminosa dell’akh, lo spirito glorificato che continua a vivere nella luce. L’allestimento delle Scuderie ripercorre questa visione come un viaggio nella coscienza. L’oro – nebu, la carne degli dèi – accoglie il visitatore nella penombra iniziale. La luce, calibrata come nelle camere ipogee di Luxor, vibra sui collari e sulle maschere funerarie, rivelando la tensione teologica del metallo. Fra le opere, il collare di Psusennes I – composto da migliaia di dischetti d’oro – è la traduzione materiale dell’idea di incorruttibilità. L’artefice non crea, ma rinnova il principio della vita eterna: l’oggetto non rappresenta, ma agisce, prolungando la presenza del corpo e garantendo il ritorno alla luce. Proseguendo, il linguaggio si fa più austero: le statue di sovrani, sacerdoti e divinità emergono dall’ombra con la lentezza di un’apparizione. La loro immobilità non è rigidità, ma equilibrio: la sospensione in cui l’umano si misura con il divino. Le proporzioni sono legge, la simmetria è verità, la pietra è scrittura della durata. In queste figure, l’Egitto mostra la sua più alta consapevolezza: che la forma può contenere il tempo. La sezione dedicata alla Città d’Oro di Amenhotep III, scoperta nel 2021 a Luxor, introduce invece alla vita terrena: una città di artigiani e di scribi che costruivano la gloria del faraone. Ogni strumento, ogni officina, ogni segno inciso nei mattoni rivela l’unità profonda fra lavoro e rito. Gli antichi non distinguevano il gesto tecnico da quello sacro: fondere il metallo, intrecciare il lino, scolpire una statua erano modi diversi di partecipare alla creazione. Nell’Egitto del Nuovo Regno, la cultura materiale non era subordinata alla religione, ma ne era la prosecuzione nella pratica quotidiana. La materia era un luogo di salvezza. Attraversando le sale, si avverte che la mostra non mira alla meraviglia ma all’ascolto. Le opere non gridano la loro antichità, ma sussurrano la loro permanenza. Ogni reperto è un frammento dell’ordine universale: un modo per ricordarci che la vita, se vissuta nella giusta misura, può toccare l’eterno. Le luci, i riflessi dell’oro, la quiete delle superfici di basalto compongono un paesaggio interiore dove la storia si trasforma in rito. In questa sospensione del tempo, Tesori dei Faraoni non celebra il passato, ma la sua inesauribile presenza: la consapevolezza che ogni forma, per esistere davvero, deve partecipare della luce da cui è nata. L’antico Egitto ci parla ancora perché custodisce una certezza che il mondo moderno sembra aver smarrito: che la materia non è un limite, ma un tramite; che l’arte non è imitazione, ma rigenerazione; e che l’eternità non si trova al di là della vita, ma nella sua misura più perfetta. Photocredit Monkeys Video Lab