Roma, Teatro Ambra Jovinelli
AMADEUS
di Peter Shaffer
uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
traduzione Ferdinando Bruni
costumi Antonio Marras
con
Antonio Salieri FERDINANDO BRUNI
Wolfgang Amadeus Mozart DANIELE FEDELI
Costanze Weber, moglie di Mozart VALERIA ANDREANO’
Venticello, procuratore di informazioni e pettegolezzi RICCARDO BUFFONINI
Barone Gotrfried Van Swieten, prefetto della Biblioteca Imperiale MATTEO DE MOJANA
Venticello, procuratore di informazioni e pettegolezzi ALESSANDRO LUSSIANA
Contessa Johanna Kilian Von Strack, Katharina Cavalieri, cantante GINESTRA PALADINO
Giuseppe II, Imperatore d’Austria UMBERTO PETRANCA
Conte Franz Orsini-Rosenberg, direttore dell’Opera Imperiale LUCA TORACCA
assistente ai costumi Elena Rossi
realizzazione costumi Elena Rossi, Alessia Lattanzio, Monica Fedora Colombo, Grazia Ieva
realizzazione scene Marina Conti, Giancarlo Centola, Tommaso Serra
produzione Teatro dell’Elfo con il contributo di NEXT Laboratorio delle idee
Roma, 23 ottobre 2025
C’è una vertigine nel guardare chi riconosce il genio senza possederlo. È la vertigine della coscienza lucida, quella che non consola ma dilania. Amadeus di Peter Shaffer, portato al Teatro Ambra Jovinelli da Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, non è un dramma storico sulla Vienna di fine Settecento, ma una riflessione metafisica sull’invidia come forma dello spirito e sulla mediocrità come condanna. Bruni e Frongia scelgono di affrontare il testo non per reinventarlo, ma per svelarne i meccanismi interni. Ne nasce uno spettacolo rigoroso, scolpito nel linguaggio e nel tempo, dove la teatralità diventa strumento d’indagine.
L’impianto scenico, essenziale e concentrico, è una macchina ottica che invita lo spettatore a esplorare la mente di Salieri, l’uomo che trasforma l’invidia in sistema di pensiero. Ferdinando Bruni, nel ruolo di Antonio Salieri, domina la scena con un’intensità mai compiaciuta. Ogni parola è un atto di ragione, ogni pausa un abisso. La sua voce, modulata come uno strumento antico, restituisce l’immagine di un uomo che non racconta la propria sconfitta, ma la analizza, la archivia, la offre al pubblico come un caso clinico dell’anima. Nessun pathos superfluo: solo la logica, che in sé contiene la tragedia. Daniele Fedeli dà a Mozart una leggerezza spiazzante. Non è il buffone isterico della tradizione cinematografica, né il santo ingenuo del mito romantico. È un ragazzo che ride troppo, suona troppo, vive troppo: un corpo attraversato dalla musica, quasi inconsapevole del proprio dono. In lui il talento non è conquista, ma fatalità — e questa, per Salieri, è la più crudele delle offese. La scena, pensata con sobrietà architettonica, disegna un perimetro mentale più che fisico. Bastano pochi oggetti – un leggio, una sedia, un sipario di luce – per evocare la corte imperiale e la mente che la osserva. È uno spazio di memoria, dove i fantasmi non scompaiono ma ritornano come riflessi. Le luci, calibrate con cura, isolano i volti come ritratti su una lastra: ogni figura partecipa di un ordine superiore, come se la geometria stessa fosse un giudizio divino. I costumi di Antonio Marras introducono una sofisticata ambiguità.
Il Settecento non è ricostruito, ma evocato come citazione: un linguaggio di memoria e artificio. Broccati e velluti, ori e neri si intrecciano in un equilibrio che racconta un mondo dove il potere è ornamento e la fede un costume. I personaggi sembrano portare addosso la contraddizione tra splendore e decomposizione, tra la grazia del rito e la fragilità del corpo. Salieri, nella lettura di Bruni e Frongia, è un intellettuale moderno, un analista del divino. Riconosce in Mozart la prova dell’esistenza di Dio, ma non sa sopportarla. La sua disperazione è logica: se Dio concede il genio a chi non lo merita, allora l’universo è ingiusto o Dio è ironico. Da qui nasce la ribellione: punire Dio colpendo il suo strumento più puro. La violenza non è fisica, ma intellettuale — la vendetta di chi usa la ragione contro l’irrazionalità del talento. Il ritmo dello spettacolo è calibrato con precisione. Le due ore e mezza scorrono come una partitura di voci e silenzi. Ogni scena è un movimento sinfonico: introduzione severa, tema gioioso di Mozart, sviluppo tragico di Salieri, coda di confessione.
La regia lavora sull’equilibrio tra parola e spazio, senza cercare effetti, ma limpidezza. L’azione nasce dal pensiero, e in questo trova la sua forza drammatica. Intorno ai protagonisti si muove una compagnia compatta, quasi cameristica. Riccardo Buffonini e Alessandro Lussiana, nei doppi Venticelli, incarnano il brusio del mondo, la voce della mediocrità che accompagna ogni grandezza. Valeria Andreanò restituisce a Costanze una presenza scenica consapevole, ben costruita sul rapporto tra corpo e parola, anche se talvolta eccede nella proiezione vocale, sfiorando un registro troppo gridato e non sempre centrato nell’emissione. Umberto Petranca offre un Giuseppe II misurato, definito da una dizione limpida e da un fraseggio equilibrato che ne sottolineano la pacata autorevolezza. Più sfumato l’intervento di Luca Toracca, che dosa con eleganza i tratti ironici del Conte Orsini-Rosenberg. Matteo De Mojana, nel ruolo del Barone, si distingue per timbro e proiezione di rara precisione, sostenuti da una presenza scenica solida e pienamente controllata, completando con efficacia il quadro interpretativo.Ma il centro dello spettacolo non sta nella ricostruzione storica né nella psicologia: sta nel pensiero. L’invidia di Salieri non è un’emozione, ma una categoria conoscitiva.
L’uomo che vede il genio è condannato a interpretarlo, e nel tentativo di comprenderlo lo distrugge. Amadeus diventa così una parabola sull’atto interpretativo stesso: ogni comprensione è appropriazione, ogni appropriazione un tradimento. In questa messinscena si percepisce qualcosa di radicalmente contemporaneo. Non perché la storia sia attualizzata, ma perché ci ricorda che viviamo ancora nel regno di Salieri: circondati da chi riconosce la bellezza senza saperla generare, da chi trasforma l’ammirazione in rancore. È la maledizione della cultura senza grazia, dell’intelligenza che si misura e si consuma. Nel finale, quando Salieri confessa al pubblico il suo delitto, la platea si trasforma in tribunale. Non chiede pietà, ma riconoscimento. E noi, spettatori colti e imperfetti, non possiamo che identificarci in lui. Chiunque abbia amato l’arte senza esserne all’altezza ha sentito, almeno una volta, la sua ombra.
Roma, Teatro Ambra Jovinelli: “Amadeus”