Roma, Teatro Argentina
RE CHICCHINELLA
Libero adattamento da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile
Scritto e diretto da Emma Dante
Con: Angelica Bifano, Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Carmine Maringola, Davide Mazzella, Simone Mazzella, Annamaria Palomba, Samuel Salamone, Stéphanie Taillandier, Marta Zollet
Scene e costumi Emma Dante
Musiche originali Carmine Maringola
Disegno luci Cristian Zucaro
Assistente alla regia Andrea Saitta
Produzione Teatro Biondo di Palermo / Emilia Romagna Teatro ERT / Fondazione
in collaborazione con Atto Unico / Compagnia Sud Costa Occidentale
Roma, 28 ottobre 2025
A teatro si va per due ragioni: per capire qualcosa o per lasciarsi attraversare da ciò che non si può capire. Con Re Chicchinella, scritto e diretto da Emma Dante e liberamente tratto da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, la seconda opzione è la più onesta. Non perché lo spettacolo non comunichi, ma perché parla un linguaggio che non passa per la ragione: quello dei sogni che si ricordano a metà, delle visioni che restano impresse come una febbre.
Sul palcoscenico del Teatro Argentina, la regista costruisce una fiaba che non consola, ma ferisce. È un viaggio che comincia dal ventre e finisce nella mente, passando per il cuore del potere. Il re, di ritorno dalla caccia, si ferma in un vicoletto per alleggerirsi. È un gesto elementare, umano, che si trasforma in tragedia. Non avendo con sé pezze né fazzoletti, si serve di una gallina trovata lì, apparentemente morta. Ma non lo è. Becca, si muove, reagisce. Da quel momento la fiaba si incrina. La bestia entra nel corpo del sovrano e non ne esce più: diventa parte di lui, un parassita che divora e insieme rigenera. Medici e preti si alternano, la scienza e la fede si confondono, ma nulla serve. La gallina resta. E con lei resta l’idea che il potere, una volta insediato, non si estirpa: si nutre, cresce, cambia pelle. È in questo momento che risuona Lascia ch’io pianga di Händel, come un lamento che si alza dal profondo del corpo violato. La voce si innalza sopra la scena, dolce e terribile insieme, mentre i medici tentano di estrarre la gallina dalle viscere del re.
È un momento di pietà e crudeltà insieme, una messa chirurgica in cui la musica barocca trasforma l’operazione in un rito sacrificale. Impossibile non pensare ai giovani fanciulli sottoposti alla castrazione per diventare voci angeliche: corpi mutilati per servire la bellezza, come qui il sovrano viene squarciato per servire l’oro. La ferita del potere e quella della voce coincidono. E in questa sovrapposizione, la regista sembra dirci che ogni dominio nasce da una mutilazione: del corpo, del desiderio, della libertà. Col tempo, il re depone ogni giorno un uovo d’oro. La corte lo acclama, lo misura, lo sfrutta. Nessuno guarda più l’uomo: guardano solo il suo rendimento. È diventato un organismo da mungere, un sistema che produce valore. Emma Dante trasforma questa allegoria economica in rito, la disperazione in danza. È la storia del capitalismo raccontata in dialetto e piume, con l’ironia di chi sa che la tragedia può essere più vera se la si fa ridere. La regista non scrive dialoghi: scolpisce corpi. Gli attori non interpretano, reagiscono. Il linguaggio è fatto di carne, di sudore, di ritmo.
Il re — Carmine Maringola, straordinario nella sua metamorfosi — si torce, sussulta, geme. È un corpo che ha smesso di appartenersi. Attorno a lui, tredici interpreti ( Angelica Bifano, Viola Carinci, Davide Celona, Roberto Galbo, Enrico Lodovisi, Yannick Lomboto, Davide Mazzella, Simone Mazzella, Annamaria Palomba, Samuel Salamone, Stéphanie Taillandier, Marta Zollet) si muovono come un’unica creatura: cantano, ringhiano, ballano. Sono la corte, ma anche il popolo, la famiglia, il coro che accompagna ogni potere dalla nascita alla rovina. Le scene e i costumi, curati dalla stessa Emma Dante, sembrano usciti da un sogno barocco in rovina: corone smisurate, ventri gonfi, piume ovunque. È un carnevale tragico, viscerale e bellissimo. Le luci di Cristian Zucaro incidono la scena come bisturi, mentre la musica di Maringola pulsa come un cuore che non trova tregua. Tutto vive, ma nulla riposa.
La regia si muove con precisione nel confine tra genio e delirio, dove la bellezza diventa strumento di rivelazione. Crea immagini che non chiedono di essere capite, ma accolte, come una verità che brucia troppo per essere detta a voce alta. A volte l’eccesso divora il senso, ma è un eccesso necessario, consapevole, umano. Dopo tredici giorni di digiuno, il sovrano rinasce. Il corpo del re è a terra, disfatto. Sopra di lui, una gallina bianca viva, piccola, respirante che produce decine di uova d’oro. Intorno, la scena si spegne. Nessun trono, nessuna corona, nessuna redenzione. Solo la vita che resiste sul cadavere del potere. È un’immagine semplice e devastante: l’animale che sopravvive all’uomo, la natura che si riprende ciò che le era stato tolto. In quell’ultima visione c’è tutta la grazia crudele di Emma Dante.
La gallina non vince, semplicemente rimane. E rimanere, in un mondo che consuma tutto, è già un atto di rivolta. L’applauso stesso diventa un atto ambiguo, metà adorazione e metà condanna. È lì che Re Chicchinella rivela la sua ferocia più tenera: non parla del re, ma di chi lo guarda. Non racconta la deformità del potere, ma quella di chi lo alimenta. È un teatro che non giudica: ci mette davanti allo specchio e lascia che a giudicarci sia il nostro stesso sguardo. Re Chicchinella quindi non è uno spettacolo da capire: è un’esperienza da sopportare, da attraversare come una febbre. È la storia di una civiltà che continua a covare illusioni d’oro anche quando ne sente l’odore di viscere. Photocredit Masiar Pasquali