Roma, Teatro dell’Opera di Roma, Stagione d’Opera 2025
“ADRIANA MATER”
Opera in due atti e sette scene
Libretto di Amin Maalouf
Musica di Kaija Saariaho
Direttore Ernest Martínez Izquierdo
Regia Peter Sellars
Maestro del Coro Ciro Visco
Costumi Camille Assaf
Luci Ben Zamora
Sound designer Timo Kurkikangas
Adriana FLEUR BARRON
Refka AXELLE FANYO
Yonas NICHOLAS PHAN
Tsargo CHRISTOPHER PURVES
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma
in collaborazione con The San Francisco Symphony
Prima rappresentazione italiana
Roma, 09 ottobre 2025
Ci sono opere che non cercano il consenso, ma la catarsi. Adriana Mater di Kaija Saariaho, approdata per la prima volta in Italia al Teatro dell’Opera di Roma, è una di queste: una meditazione lirica sul trauma, sulla maternità violata e sulla possibilità del perdono in un mondo devastato dalla guerra e dall’odio. In essa non si rappresenta un’azione, ma si attraversa una condizione. Saariaho, con la consueta lucidità visionaria, compone non una tragedia, ma una liturgia del dolore: un oratorio teatrale che fonde tempo musicale e tempo psichico, dove la linea melodica non si sviluppa, ma respira, si frattura, si dissolve.
Il libretto di Amin Maalouf, asciutto e universale, rinuncia a ogni connotazione geografica o storica per assumere il valore di archetipo. Adriana, donna violentata in tempo di guerra, genera un figlio, Yonas, che crescerà ignaro dell’origine della propria nascita. Quando scoprirà che il suo padre biologico è lo stesso aggressore, Tsargo, dovrà scegliere se vendicare la madre o riscattarla attraverso il perdono. L’amica Refka, testimone e coscienza morale, incarna la memoria ferita della collettività. È un impianto da tragedia antica, ristretto a quattro voci e a un coro interiore, dove ogni parola diventa eco, ogni silenzio diventa giudizio. La regia di Peter Sellars eleva il testo a una dimensione sacrale. Rinunciando a qualsiasi ricostruzione realistica, l’allestimento romano si fonda su un principio di astrazione assoluta: lo spazio scenico è nudo, segnato da fenditure luminose e ombre mobili che ricordano le tavole di un codice medievale. La luce di Ben Zamora, sempre laterale o radente, non illumina ma scolpisce; crea zone di rivelazione e di annientamento, dove il corpo dell’interprete diventa icona e reliquia. Sellars concepisce la scena come campo spirituale, luogo di transito fra la colpa e la grazia. In questo contesto la gestualità è ridotta all’essenziale: braccia che si aprono, sguardi che si distolgono, silenzi che bruciano più di qualsiasi grido.
La componente sonora, curata da Timo Kurkikangas, amplifica l’organismo orchestrale in un gioco di rifrazioni e risonanze: Adriana Mater non si ascolta, si attraversa. Ogni vibrazione è collegata alla respirazione dei personaggi; il suono si fa materia visiva e spirituale insieme. Alla guida dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, Ernest Martínez Izquierdo restituisce con straordinario rigore la complessità della scrittura Saariahiana, che oscilla fra densità spettrale e trasparenza cristallina. La direzione, calibrata e severa, evita il sentimentalismo per esaltare invece la tensione interna del linguaggio. I flussi armonici emergono come sostanza viva: gli archi, talvolta vibranti come membrana di dolore, i fiati che si dissolvono in respiri collettivi, le percussioni come battito cardiaco della coscienza. Izquierdo dimostra una lucidità analitica rara, in grado di rendere leggibile una partitura costruita su microvariazioni e impercettibili slittamenti tonali. L’equilibrio tra orchestra e voci è mantenuto con disciplina esemplare: mai un eccesso di densità, mai un cedimento retorico. Il quartetto vocale, ridotto ma centrale, si rivela di altissima qualità.
Fleur Barron, nel ruolo di Adriana, offre una prova magnetica, di grande controllo tecnico e tensione drammatica. Il mezzosoprano esibisce un timbro brunito e duttile, capace di attraversare con uguale efficacia le sezioni sospese e quelle di veemenza interiore. Barron non interpreta Adriana, la incarna: il canto si fa respiro, la parola carne, la sofferenza rito. La sua emissione nei pianissimi, sostenuta da una proiezione impeccabile, restituisce l’idea di un dolore senza teatralità, puro e sacro. Accanto a lei, Axelle Fanyo (Refka) offre il contrappunto luminoso e terrestre: la sua voce, chiara e penetrante, traduce il ruolo di testimone in una forza di compassione attiva. La vocalità più agile e solare si fonde perfettamente con quella della Barron, dando vita a un duetto di intensità quasi mistica nel primo atto, dove le due donne condividono il segreto della colpa e della speranza. Nicholas Phan, nel ruolo di Yonas, affronta con rara intelligenza musicale una parte di straordinaria complessità psicologica. La sua voce, di lirismo limpido e vibrato controllato, si muove tra innocenza e disperazione, senza mai cedere al pathos.
La scena finale, nella quale Yonas rinuncia alla vendetta, è eseguita con una compostezza che commuove: un canto sottovoce che diventa dichiarazione etica, quasi un nuovo credo dell’umanità possibile. Christopher Purves restituisce a Tsargo la tridimensionalità di un uomo sconfitto dal proprio male. La voce, possente ma mai aggressiva, si piega al servizio di un fraseggio inquieto, scandito da timbri metallici e improvvise implosioni. Il suo Tsargo è più spettro che carne, un’ombra che torna a chiedere perdono. Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, preparato con la consueta precisione da Ciro Visco, agisce come una coscienza collettiva: mai invadente, ma sempre presente, vibra in una dimensione metateatrale, prolungando nello spazio il respiro dell’orchestra. I costumi di Camille Assaf, di rigorosa neutralità cromatica, contribuiscono alla sospensione temporale dell’opera. Non ci sono epoche né luoghi: solo corpi, memorie e luce. Nel complesso, questo allestimento romano di Adriana Mater rappresenta un punto alto nella ricezione italiana di Saariaho. L’opera, difficile e priva di compromessi, è qui affrontata come esperienza estetica e morale, come teatro della coscienza. Quando la musica si spegne, rimane il silenzio – non quello della fine, ma quello che segue la rivelazione. Adriana Mater non lascia un ricordo, lascia una ferita luminosa: la consapevolezza che la musica, ancora una volta, può dire l’indicibile.
Roma, Teatro dell’Opera: “Adriana Mater”