Roma, Teatro Nazionale: “Tragùdia. Il canto di Edipo”

Roma, Teatro Nazionale
TRAGUDIA – Il canto di Edipo
Liberamente ispirato alle opere di Sofocle e ai racconti del mito
Regia, scene, luci, suoni, costumi Alessandro Serra
Traduzione in lingua grecanica  Salvino Nucera
Con Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino
Voci e canti  Bruno de Franceschi
Roma, 07 ottobre 2025
C’è un silenzio che precede ogni parola, un’eco profonda che sembra provenire dalle viscere del tempo. È da quel silenzio che nasce Tragùdia – Il canto di Edipo, creazione totale di Alessandro Serra, che firma regia, scene, luci, costumi e suono, componendo un organismo teatrale di assoluta coerenza estetica. Il mito sofocleo, spogliato di ogni linearità narrativa, si trasforma in una partitura di gesti, luci e suoni: non più racconto, ma rito, non più rappresentazione, ma esperienza. Serra non mette in scena il mito: lo riattraversa, lo riduce all’osso, ne estrae la vibrazione prima del linguaggio. Sul palco, immersi in un paesaggio di cenere e di rovine, agiscono Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Giannelli, Jared McNeill, Chiara Michelini, Felice Montervino. Sono presenze, non personaggi: voci e corpi che abitano uno spazio sacro, frammenti di una coralità che restituisce al mito la sua dimensione collettiva. La loro parola non descrive, ma evoca. È pronunciata in grecanico, lingua di confine e di sopravvivenza, residuo sonoro della Magna Grecia rimasto nei villaggi dell’estremo Sud. Serra ne fa il cuore poetico dello spettacolo: non una curiosità linguistica, ma un gesto di resistenza. Il grecanico è una lingua che non si comprende ma si sente, che costringe all’ascolto, alla disponibilità sensoriale. In essa, la tragedia ritrova la propria sostanza acustica: non più parola, ma canto; non più significato, ma suono. Lo spazio scenico è spoglio, terroso, segnato da un’ossidazione che pare geologica. Non rappresenta Tebe, ma il suo relitto: un paesaggio mentale e insieme fisico, dove il tempo è collassato su se stesso. Blocchi, superfici screpolate, fenditure di luce che tagliano il buio come lame di memoria. I corpi si muovono con lentezza, immersi in un’atmosfera densa e sospesa, quasi di polvere in movimento. Tutto in Tragùdia si fonda su una drammaturgia della sottrazione: ciò che non è detto, ciò che si dissolve, vale più di ciò che appare. Le luci di Serra, più che illuminare, scavano. La scena non è un luogo, ma un respiro: uno spazio che esiste solo per scomparire. La coralità diventa la struttura drammatica dell’opera. Non c’è distinzione tra individuo e moltitudine: tutti sono Edipo, tutti sono la città cieca che lo ha generato. Il dolore non appartiene a un corpo solo, ma si distribuisce come una vibrazione che attraversa il gruppo. È una tragedia senza protagonista, dove la voce si fa comunità e il canto prende il posto del dialogo. Serra conduce il mito fino alla sua essenza rituale, restituendo alla scena la densità di un atto sacro. Il ritmo è lento, ipnotico, scandito da silenzi che pesano quanto le parole. Non esiste progressione, ma ritorno. La tragedia si ripete come un’invocazione ciclica, un respiro che si apre e si richiude su se stesso. Il canto, ora sussurrato ora percussivo, scandisce il tempo interiore dello spettacolo. La musica – non illustrativa, ma drammaturgica – si intreccia al suono delle voci, ai rumori del corpo, al fruscio della materia. Tutto partecipa di una stessa sostanza vibrante: parola, gesto e suono si fondono in un unico organismo scenico. E tuttavia, in tanta coerenza formale, si cela anche una tensione. L’assoluto rigore estetico di Serra può farsi ostacolo, la perfezione diventare distanza. L’esperienza sensoriale, pur di straordinaria intensità, rischia di sfiorare l’ermetismo. L’uso del grecanico, pur potentissimo come scelta poetica, crea una barriera percettiva: l’ascoltatore, immerso in un linguaggio che non comprende, oscilla tra fascinazione e smarrimento. L’incomprensibilità, che in principio genera mistero, può trasformarsi in chiusura. Il teatro, pur nella sua tensione sacrale, corre allora il rischio di perdere la propria immediatezza emotiva, sostituita da una contemplazione rarefatta. La bellezza visiva, indiscutibile, sfiora a tratti il manierismo. L’equilibrio millimetrico delle luci, la precisione dei movimenti, la costruzione quasi pittorica delle scene, tutto concorre a un’armonia che può divenire incantamento statico. L’immagine domina, ma non sempre ferisce. Si resta affascinati, non necessariamente turbati. Serra, nel tentativo di restituire al teatro la sua dimensione rituale, lo porta sul limite dell’astrazione assoluta: una forma di sacralità laica che commuove per rigore, ma che chiede un atto di fede per essere accolta. Eppure, è proprio in questo limite che Tragùdia trova la sua verità. La sua forza non risiede nell’accessibilità, ma nell’ostinazione con cui rifiuta ogni compromesso. È un teatro che non spiega, che non semplifica, che non concede sollievo. Ogni gesto è un frammento di conoscenza, ogni luce una domanda, ogni suono un’offerta. Serra sottrae fino all’osso, fino a quando la tragedia si riduce a respiro. Ciò che resta è l’essenza del mito: l’uomo di fronte alla propria cecità, la parola ridotta a invocazione, il corpo come misura del destino. Gli ottanta minuti senza intervallo si vivono come un unico flusso. Non esiste tempo esterno, ma solo un tempo interiore, dilatato, ciclico. Lo spettatore non “assiste”, ma attraversa. La comprensione razionale si dissolve, sostituita da un ascolto fisico, da una percezione che coinvolge i sensi più che l’intelletto. È un teatro che domanda, non risponde; che non chiede consenso, ma disponibilità.  Tragùdia – Il canto di Edipo non si conclude: si sospende. Come il respiro di un rito interrotto, continua a vibrare oltre la scena. Serra restituisce al teatro la sua funzione più antica: non rappresentare, ma ricordare. La cecità di Edipo diventa la nostra, e il suo canto una possibilità di riscatto. La conoscenza, qui, non illumina ma brucia. E nel punto esatto in cui la parola si spegne, il teatro ritrova la sua verità: quella di un’arte che non spiega, non narra, ma canta per sopravvivere al silenzio.