Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman
IL PIACERE DELL’ONESTA’
di Luigi Pirandello
Regia di Giampaolo Romania
con Pippo Pattavina, Francesca Ferro, Debora Bernardi, Riccardo Maria Tarci, Giampaolo Romania, Aldo Toscano, Giuseppe Parisi, Anastasia Caputo
Scene di Salvo Manciagli
Costumi Sartoria Pipi Palermo
Direttore di scena Franco Sardo
Luci di Santi Rapisarda
Associazione Culturale Progetto Teatrando
Roma, 31 ottobre 2025
C’è nel teatro di Pirandello una tensione morale che non si risolve mai nella trama, ma nel linguaggio. È la parola, e solo la parola, a generare l’azione: parola pensata, sofferta, corrosiva, che non ammette leggerezza. Il piacere dell’onestà, tra i drammi più aspri del suo autore, torna in scena con un allestimento diretto da Giampaolo Romania, che ne coglie la struttura intellettuale e ne restituisce la sostanza etica senza alterarne la forma.
È un teatro di rigore, che rifugge dalla decorazione per tornare alla verità, e che affida alla sobrietà l’intero peso della rappresentazione. L’interpretazione di Pippo Pattavina si impone per equilibrio e lucidità. Il suo Angelo Baldovino non è eroe né vittima, ma un uomo che fa dell’onestà un’arma e insieme un destino. La sua recitazione non procede per slanci, ma per gradazioni: ogni gesto sembra pensato, ogni pausa misurata. Nel tono della voce, asciutto e scolpito, si avverte la fatica di un pensiero che si piega ma non si spezza. Pattavina domina la scena con il solo potere dell’intelligenza drammatica, costruendo un personaggio di complessità limpida, come un teorema che si rivela solo nella sua dimostrazione finale. Francesca Ferro gli dà efficace contrappunto con una Agata di silenziosa profondità. L’attrice evita con sapienza ogni tentazione sentimentale, conferendo al personaggio una gravità dolente, quasi sacrale.
Nella sua figura si riconosce la condizione pirandelliana della donna che si trova, suo malgrado, al centro di un sistema morale che non comprende e che pure la giudica. Debora Bernardi e Riccardo Maria Tarci offrono interpretazioni rigorose, ben calibrate nel tono corale della messinscena. Giampaolo Romania, anche attore tra i suoi interpreti, mantiene una presenza sobria e disciplinata, coerente con la sua idea di regia come architettura del pensiero. Aldo Toscano, Giuseppe Parisi e Anastasia Caputo completano il quadro con esattezza, assicurando a ogni personaggio la giusta funzione di cerniera tra le tensioni morali e i movimenti della vicenda. Nessuno cerca il protagonismo, e questa misura collettiva diventa la vera cifra dello spettacolo. La scena ideata da Salvo Manciagli si impone per chiarezza concettuale. Non illustra, ma definisce: un ambiente borghese ridotto all’essenziale, dove i contorni geometrici sembrano delimitare la stessa rigidità della coscienza. È uno spazio che si restringe, che imprigiona i personaggi nel perimetro delle proprie scelte, come una cella luminosa da cui non si evade.
I costumi della Sartoria Pipi, nella loro neutralità cromatica, amplificano questa sensazione di sospensione morale: l’eleganza diventa forma di condanna, e il decoro sociale si fa gabbia. La luce di Santi Rapisarda agisce come ulteriore elemento drammaturgico: non accompagna, ma interroga. I personaggi non sono illuminati, ma messi in giudizio. Le ombre tagliano lo spazio come fenditure, rivelando l’angoscia sottile che attraversa il testo. È una scelta coerente con la regia, che predilige la riflessione alla concitazione, la precisione alla suggestione. Romania conduce la messinscena con una compostezza che sfiora la severità. Il ritmo, volutamente lento, obbliga lo spettatore a un ascolto attento, quasi meditativo. Non vi è ricerca di effetto, ma esigenza di chiarezza.
Questa economia espressiva, che potrebbe apparire fredda a un pubblico disabituato al pensiero, diventa invece lo strumento per restituire al dramma pirandelliano il suo respiro filosofico. Qui la parola non intrattiene: pesa, misura, giudica. E tuttavia, in questa sobrietà assoluta, pulsa una tensione umana che salva lo spettacolo dal rischio della purezza astratta. L’onestà, come idea, diventa carne: e il palcoscenico, da luogo di rappresentazione, si trasforma in spazio morale. Ogni figura in scena — dal protagonista ai comprimari — è chiamata a rispondere di sé. È il teatro nella sua funzione più alta: non quella di intrattenere, ma di mettere in crisi. Il finale, asciutto e implacabile, non concede catarsi. Quando Baldovino sceglie di restare integro, lo fa sapendo che la verità non redime ma separa.
Il silenzio che segue non è commozione, ma consapevolezza: come se la scena, per un istante, coincidesse con il tribunale dell’anima. In tempi di teatro effimero e verboso, questa edizione del Piacere dell’onestà rappresenta un gesto raro: il ritorno alla disciplina della forma, alla responsabilità del dire. È uno spettacolo che non chiede applausi ma riflessione; che restituisce a Pirandello la sua austera modernità e ci ricorda che l’onestà — in arte come nella vita — non è un piacere, ma una prova.
Roma, Teatro Quirino Vittorio Gassman: “Il piacere dell’onestà”